ARTICOLO n. 89 / 2022

SENZA AMORE NON CI PUÒ ESSERE COMUNITÀ

Speciale bell hooks

Sarebbe ingeneroso e probabilmente falso dire che figure come quella di bell hooks non esistono più. Ma la percezione che il 15 dicembre del 2021 il mondo abbia perso una delle sue intellettuali più luminose è piuttosto fondata. In poche righe del suo Insegnare a trasgredire si trovano le prove a sostegno di questa affermazione: «Sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza: il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo. Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere – comprendere cosa stesse accadendo intorno a me è nel mio intimo. Più di ogni altra cosa, desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione».

In queste righe hooks non vuole fare un elogio della sofferenza, ma perorare la causa di una teoria diversa, una teoria che serve a «immaginare futuri possibili, dove la vita [può] essere vissuta in modo diverso». L’autrice ha tradotto questo radicamento nell’esperienza non soltanto elaborando una teoria debitrice della vita, ma anche particolarmente democratica. La sua attenzione per il quotidiano, per i rapporti umani, per i fatti concreti dell’esistenza postula che tutti possono fare filosofia e che anzi, forse sono proprio quelli che si trovano ai margini a elaborare le proposte più originali. Non serve essere colti o intellettuali per partecipare a questa produzione filosofica e, allo stesso tempo, la cultura deve essere accessibile a tutti.

Nel suo Il femminismo è per tutti, hooks scrive che anche se non sembra, «tutto ciò che facciamo nella vita si fonda sulla teoria. Che esploriamo consapevolmente le ragioni che ci portano ad avere un determinato punto di vista o a compiere un determinato gesto, o meno, c’è sempre un sistema soggiacente che plasma pensiero e pratica». L’autrice sta spiegando le origini della coscienza critica femminista, illustrando come il movimento sia riuscito a elaborare una teoria complessa e articolata non basandosi, ma addirittura rifiutando, l’eredità dei pensatori del passato e ancorandosi in quelle zone dell’esistenza che sono sempre state considerate irrilevanti.  

Nella produzione di bell hooks, questo ha significato scandagliare il proprio vissuto. È proprio nelle sue pagine più personali, dove mette a nudo se stessa e la sua vita, che la prosa di hooks si eleva. Tutto sull’amore, un libro intimo e al contempo profondamente politico, è il perfetto esempio dell’unione strettissima tra prassi e teoria e della grande accessibilità del pensiero dell’autrice. Uscito nel 2000, Tutto sull’amore potrebbe essere facilmente scambiato per uno dei numerosi libri di self-help sentimentale che tanto andavano di moda in quegli anni. hooks ne cita diversi, da Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (1992) di John Gray a The Road Less Traveled (1978) di Morgan Scott Peck, tradotto in italiano con il titolo di Voglia di bene. La popolarità di questi libri, secondo l’autrice, è il sintomo della mancanza di un discorso politico sull’amore.  

Ho incontrato la concezione politica dell’amore di hooks grazie a un testo contenuto nell’antologia Outlaw Culture: Resisting Representations, intitolato L’amore come pratica di libertà. Qui, partendo proprio dal libro di Scott Peck, hooks comincia a delineare l’interdipendenza tra la dimensione privata dell’amore e quella pubblica, esemplificata nella figura di Martin Luther King. King ha fondato la sua pratica politica nell’amore, o meglio, ha fatto una vera e propria dichiarazione d’amore. Di fronte all’odio, alla violenza e all’oppressione, King «ha deciso di amare», fornendo al razzismo e al colonialismo una risposta del tutto inaspettata. È questa qualità decisionale della politica dell’amore di King, che per usare una espressione femminista potremmo definire come un «io che dice io», che rende la sua prassi di liberazione qualcosa di completamente nuovo. 

Intorno a lei, hooks osserva una cultura del disamore, che disprezza l’amore o lo mercifica, schiacciandolo tutto sulla dimensione dell’io. Non è una semplice questione di egoismo. L’io diventa il perno intorno a cui concettualizziamo lo stare insieme, mettendo al primo posto i nostri bisogni anziché quelli altrui, ma anche attribuendo solo a noi stessi il fallimento delle nostre relazioni. Al contrario, nell’esperienza amorosa esiste un riconoscimento, un «interessere» dirà hooks, che è anzitutto un riconoscimento politico. La dimensione politica entra nell’amore perché ha il potenziale di riprodurre o di mettere in discussione le gerarchie del potere, perché la famiglia continua a essere l’impianto su cui viene costruita la società, perché chi sta ai margini ha meno possibilità di amare, ma soprattutto perché manca la consapevolezza dell’amore, quella che fece dire a King «ho deciso di amare».

Per hooks, «possiamo risvegliarci all’amore solo se abbandoniamo la nostra ossessione per il potere e il dominio», ovvero se smettiamo di avere paura. Molte delle nostre convinzioni sull’amore si radicano infatti sulla paura, in primis quella del diverso. La paura diventa il catalizzatore dell’oppressione, perché ci impedisce di riconoscere quell’interessere che è invece fondamentale nell’etica dell’amore. Questo non significa specchiarsi in chi è uguale a noi, trovare – per usare un’espressione del gergo romantico – «la nostra anima gemella», ma al contrario apprezzare la differenza. Un processo che Luce Irigaray traduceva in un «amare a qualcuno», dove quell’a significava la rinuncia al possesso.

La presenza della politica nell’amore non è solo negativa, è un dato di fatto: senza amore non ci può essere comunità e senza comunità non si può sconfiggere la paura che attanaglia i nostri rapporti con l’altro. Per hooks un amore che si fonda su queste premesse è un amore produttivo, ma non in senso capitalista. È un amore che genera, che crea, che spariglia. Attraverso l’incontro con l’altro e con il mutuo riconoscimento delle differenze, attraverso l’accettazione paziente della dimensione politica dell’amore, si creano energie nuove. 

Quando hooks parla di un femminismo per tutti o di una teoria democratica, si riferisce proprio a questo processo generativo, che non prevede alcun requisito identitario o culturale, ma solo la disposizione a mettersi in discussione, a decostruirsi. È nella convinzione che tutti siano in grado di produrre pensiero critico che risiede la forza della filosofia di bell hooks. Molti altri autori e autrici hanno propugnato una filosofia accessibile o di massa, ma lo hanno comunque fatto assumendo una posizione di guida, se non a volte di vero e proprio dominio culturale. hooks non è la saggia filosofa che ci illustra il cammino da intraprendere, men che meno la studiosa che mette a disposizione le sue ricerche con un linguaggio semplificato. È piuttosto una compagna di viaggio che crede davvero che la teoria fiorisca nelle pieghe della nostra esistenza, nelle cose che ci accadono e nei nostri desideri, «per renderci liberi di essere ciò che siamo, liberi di vivere una vita in cui sia possibile praticare l’amore per la giustizia, in cui sia possibile vivere in pace».

ARTICOLO n. 93 / 2024