ARTICOLO n. 83 / 2022

LA SCRITTRICE CHE SONO STATA: AMORE, BUDDISMO E IL BEAT

intervista di George Yancy

Apriamo, con un’intervista al New York Times di George Yancy del dicembre 2015, il nostro speciale dedicato a bell hooks. Di settimana in settimana lo arricchiremo con approfondimenti, letture e inediti. 

George Yancy: Negli anni hai usato l’espressione «patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco» per descrivere la struttura di potere che sta alla base del nostro ordine sociale. Perché unire tutti questi termini, anziché prenderli in considerazione uno alla volta?

bell hooks: Non si può pensare di capire la natura della dominazione se non si comprende come questi sistemi sono connessi l’uno all’altro. In particolare, questa espressione mi ha sempre colpito perché non dà più valore a un sistema rispetto a un altro. Per tanti anni, nel movimento femminista, le donne hanno dichiarato che il genere è l’unico tratto identitario che importa davvero e che la dominazione, nel mondo, si è affermata tramite lo stupro. Poi sono arrivati i sostenitori della razza, che invece dicevano: «È la razza la cosa davvero importante. Non serve a niente parlare di classe o di genere». Per me, quindi, quell’espressione è un rimando a un contesto globale, al contesto del classismo, dell’imperialismo, del capitalismo, del razzismo e del patriarcato. Sono tutti elementi collegati tra loro in un sistema interconnesso. 

G.Y. Ti ho sentito parlare diverse volte e mi sono reso conto che hai uno spiccato senso dell’umorismo. Che ruolo ha lo humour nel tuo lavoro?

b.h. Non può esserci una vera rivoluzione senza umorismo. Ogni volta che la sinistra o qualunque altra parte politica cerca di fare dei passi avanti verso politiche più radicali e non ci mette dell’ironia, fallisce. L’umorismo è fondamentale per raggiungere quell’equilibrio di integrazione necessario a gestire la diversità e le differenze che emergono quando si crea una comunità. Per esempio, adoro le conversazioni con Cornel West: tra grandi alti e bassi, con lui allegria e umorismo non mancano mai. Nel nostro ultimo intervento pubblico, molte persone sono rimaste contrariate perché abbiamo fatto gli scemi. Personalmente, considero una santa vocazione il poter essere spiritosi assieme. Quando mai capita di vedere due afroamericani, uomo e donna, che conversano, criticandosi a vicenda ma con grande ironia e piacere? È un miracolo.

G.Y. Che ne pensi del movimento femminista oggi, e com’è cambiato, nel tempo, il rapporto che vi lega?

b.h. Il mio impegno militante verso il femminismo è ancora molto forte, soprattutto perché il femminismo è stato il principale movimento sociale contemporaneo a promuovere la capacità di mettersi in discussione. Quando noi donne di colore abbiamo cominciato a dire alle donne bianche che quello delle donne non era un gruppo omogeneo, ma che bisognava affrontare la realtà delle differenze razziali, molte di loro si sono date subito da fare. Oggi sono una femminista solidale con le donne bianche proprio per questa ragione, perché ho visto come non hanno esitato ad aprire la propria mente e a cambiare radicalmente la direzione del pensiero, degli scritti e dell’azione femminista. Per me questo è ancora uno degli aspetti più straordinari e degni di nota del movimento femminista contemporaneo. La sinistra non ha fatto niente di tutto questo, i neri radicali neppure, nessuno è arrivato a dire: «Guardate, le vostre idee, la vostra ideologia, è impostata nel modo sbagliato. Dovete cambiare prospettiva». Il femminismo è riuscito a fare questo cambio di paradigma, seppur non senza ostilità, non senza che qualche donna avesse la sensazione che quella della razza fosse una forzatura. È un cambiamento che ancora mi sconvolge.

G.Y. Che cosa possiamo fare nelle nostre vite quotidiane per combattere il potere e l’influenza di quello che tu chiami patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco? Cosa si può fare nella pratica?

b.h. Io abito in una cittadina a maggioranza bianca della Bible Belt. Invece di pensare: «Che cosa farebbe Gesù?», mi chiedo sempre: «Cosa si aspetterebbe da me Martin Luther King, oggi?». Poi mi dico che Martin Luther King vorrebbe che mi aprissi al mondo e che, in qualunque modo possibile, grande o piccolo, contribuissi a costruire una comunità degna d’amore. Come cristiana buddista, poi, penso al detto del monaco buddista Thich Nhat Hanh: «Un sasso lanciato nell’acqua non arriva lontano, ma le onde che forma sì». Ogni giorno quindi mi ripeto: «Che cosa stai facendo, bell, per creare la tua beneamata comunità?». Perché sotto sotto, localmente, persiste l’idea che devo essere parte fondamentale del mondo in cui vivo. Stamattina sono stata al mercato agricolo e al mercatino di beneficienza della chiesa. Mi sforzo sempre di entrare in contatto con le persone, sì, anche persone con cui posso non essere del tutto a mio agio. Ci sono parecchi bifolchi bianchi del Kentucky che mi guardano con disprezzo. Ma non mi faranno cambiare idea. Sto facendo la stessa cosa che facevano gli attivisti per i diritti civili, quei bianchi e quei neri che hanno organizzato manifestazioni e si sono seduti insieme nelle tavole calde.

È questione di umanizzazione. Non riesco a pensare a un altro modo per uscire dalla crisi dell’odio razziale, se non tramite la volontà di umanizzare. Per quanto mi riguarda, traggo grande forza dalle immagini dei movimenti sociali che vedono la partecipazione congiunta di persone di colore e bianche. Selma non mi è sembrato granché come film, ma mi ha dato forza pensare a tutte quelle persone, quei bianchi che lo vedono e pensano: «Buon Dio, che ingiustizia! Andiamo a fare la nostra parte». Sentirsi chiamati a una causa è meraviglioso. Spesso, in questa vita che mi ritrovo, mi capita di chiedermi: «Per cosa saresti disposta a dare la vita, bell? In quali circostanze scenderesti in strada sapendo di esporti a un rischio concreto?». Pensare a cosa sono state in grado di fare quelle anziane donne nere a Selma, in Alabama, serve a ricordarci quanto questa storia di lotte sia stata fondamentale per consentirci di vivere nella condizione di privilegio in cui ci troviamo oggi.

G.Y. Quest’ultima considerazione mi riguarda da vicino, soprattutto se penso alla mia identità intellettuale e al fatto che spesso mi dimentico di riflettere sul privilegio che la accompagna.

b.h. Ah, io sono una vera intellettuale. Alla gente dico che il lavoro intellettuale è il laboratorio in cui vado ogni giorno. Senza tutte le persone che si sono impegnate nella lotta per i diritti civili, però, non sarei qui. Insomma, quante donne nere hanno avuto la fortuna di scrivere più di 30 libri? Quando mi sveglio, alle 4 o alle 5 del mattino, mi dedico alla preghiera e alla meditazione, poi ho quelle che definisco le mie “ore di studio”. Cerco di leggere un libro al giorno, sempre di saggistica, poi posso dedicarmi a qualunque tipo di spazzatura per il resto della giornata. Il mio è un lusso, un privilegio di ordine supremo: il privilegio del pensiero critico, di poter agire su ciò che si sa.

G.Y. Chiaro. Hai detto che la teoria può diventare un luogo di guarigione. Puoi elaborare meglio il concetto?

b.h. Parto sempre dai bambini. La maggior parte dei bambini sviluppa una capacità di pensiero critico eccezionale, prima che noi li silenziamo. Nella sostanza, penso che la teoria non sia altro che un modo per dare senso al mondo: da bambina talentuosa cresciuta in una famiglia disfunzionale, dove il talento non era apprezzato, sono riuscita a tirare avanti chiedendomi: «Perché mamma e papà sono fatti così?». Domande che costituiscono l’essenza stessa del pensiero critico. Per questo sono convinta che quella forma di pensiero, insieme alla teoria, possa essere fonte di guarigione. Ci aiuta ad andare avanti. Ovviamente, poi, non so come funzioni per altri scrittori o pensatori, ma ho la fortuna di avere persone che mi contattano ogni giorno, per posta o fermandomi per strada, per dirmi che il mio lavoro gli ha cambiato la vita, le ha aiutate ad andare avanti. Cosa ci può essere di più bello per una pensatrice e teoreta?

G.Y. Come fai a non lasciarti sedurre da tutto questo? Penso che gli intellettuali, gli studiosi più noti, siano molto tentati a ricadere nel narcisismo. Tu come fai a resistere?

b.h. Innanzitutto, vivo in una città di 12.000 abitanti, molti dei quali non hanno neanche idea di chi sia bell hooks, tanto che c’è chi chiede: «Ma bell hooks è una persona?». La mia è una vita abbastanza modesta, perché uno dei vantaggi di avere un altro nome, Gloria Jean, un nome da vera bifolca degli Appalachi, è che non me ne vado in giro tutti i giorni come bell hooks. Vivo la mia vita quotidiana da banalissima Gloria Jean. Anche se ultimamente le cose hanno iniziato a cambiare, perché sto cominciando a farmi conoscere come artista, scrittrice e pensatrice anche nel mondo della piccola cittadina in cui vivo.

Penso che questa mia popolarità sia dovuta al fatto che nel mio lavoro scrivo di spiritualità, uno degli aspetti fondamentali che mi hanno tenuto con i piedi per terra nella vita. Da piccola, quando mia mamma mi ripeteva: «Sarai anche tanto intelligente, ma non sei meglio degli altri», mi chiedevo: «Perché mi dice queste cose?». Oggi, ovviamente, l’ho capito. Era per farmi rimanere con i piedi per terra, per fare in modo che continuassi a rispettare le tante vie del sapere, le conoscenze altrui, senza pensare: «Oh, io sono più intelligente», come credo possa capitare a tanti intellettuali famosi.

Mi viene sempre da ridere nel sentirmi definire un’intellettuale sociale. Rido perché un tempo la gente mi chiedeva: «Come hai fatto a scrivere così tanto?» e la risposta era: «Non ho avuto una vita». Non c’è proprio niente di sociale nell’energia, nella disciplina e nella solitudine che servono a scrivere così tanto. Per me gli intellettuali sociali sono qualcosa di molto diverso, perché usano le loro opere per interagire con un pubblico. Nei tanti anni in cui mi sono dedicata a scrivere, io non ho mai avuto questa intenzione. Volevo solo produrre delle teorie che la gente potesse utilizzare. C’è un’espressione che uso: “lavorare sull’opera”. Se qualcuno viene da me con un libro di bell hooks tutto stropicciato, con sottolineature su ogni singola pagina, so che ha “lavorato sull’opera”. Ed è esattamente quello che voglio.

G.Y. C’è qualche correlazione tra l’insegnamento come spazio di guarigione e la tua concezione dell’amore?

b.h. Beh, sono fermamente convinta che l’unico modo per liberarsi della dominazione sia l’amore e che l’unico modo per poter entrare davvero in contatto con gli altri, e per sapere come fare, sia partecipare a ogni aspetto della propria vita come a un sacramento d’amore. Incluso l’insegnamento. Ormai non insegno più molto. Sono praticamente in pensione. Come ogni atto d’amore, anche l’insegnamento assorbe parecchie energie.

Ho appena parlato con uno dei miei vicini di che effetto faccia lavorare per un’università come Berea, in cui le rette sono coperte da borse di studio e molti studenti vengono dai colli Appalachi. A volte tendiamo a farci scoraggiare dall’idea che un’istituzione del genere non riesca a essere all’altezza della sua storia di integrazione e inclusione razziale, ma poi vediamo che alcuni dei nostri studenti fanno cose davvero straordinarie, dalla Virginia come dal Tennessee. Insomma, sono esattamente dove dovrei essere, a fare ciò che devo fare, e a dare e ricevere l’amore che emerge ogni volta che riusciamo a fare bene il nostro lavoro.

G.Y. Nella tua concezione, l’amore è l’opposto dell’alienazione. Cosa puoi dirci in proposito?

b.h. Se si pensa all’amore, all’amare come azione, non si può agire senza creare una connessione. Mi capita spesso di pensare alla frase “solo connettere”.[1] In termini di suprematismo bianco, per esempio, qualche settimana fa un poliziotto mi ha fermato, qui a Berea, perché avevo commesso un’infrazione. La mia prima reazione è stata di paura, e mi è venuto da pensare che negli oltre 60 anni che ho vissuto qui [negli Stati Uniti] non ho mai avuto paura dei poliziotti, invece adesso sì. Quello che mi ha fermato è stato gentilissimo. Eppure, a me è venuto da pensare a quanto deve essere cambiata in peggio la nostra società per arrivare a un simile livello di alienazione, mai visto prima.

So che uomini e donne di colore hanno sempre vissuto esperienze essenzialmente diverse, ma da quando ero bambina a oggi non ho mai pensato che i poliziotti potessero essere miei nemici. Tuttavia, a quale donna nera, dopo gli sconcertanti abusi inflitti a Sandra Bland, non tremerebbero le ginocchia nel vedersi fermare dalla polizia? Mentre guardavo quel video, mi aspettavo quasi che i poliziotti le sparassero lì sul posto. I suprematisti bianchi sono fuori di testa.

Una volta parlavo del patriarcato come di una malattia mentale legata alla disfunzionalità del desiderio, ma il suprematismo bianco è una malattia mentale altrettanto seria e profonda, che porta a fare cose completamente folli. Penso che uno dei problemi della nostra società sia che tende a normalizzare le malattie mentali, quindi anche il suprematismo bianco, e che il suo emergere e la sua diffusione siano parte integrante di tale malattia mentale.Ricordiamo che la nostra è una cultura in crisi. Parlo di una crisi spirituale, oltre che politica: per questo Martin Luther King Jr. è stato così preveggente nel sostenere quanto il potere dell’amore fosse importante per avere un effetto davvero rivoluzionario.

G.Y. Eppure, questo non significa che nel tuo lavoro non ci sia posto anche per la rabbia, come nel libro Killing Rage, no?

b.h. Sì, certo. La prima volta che ho incontrato Thich Nhat Hanh, non vedevo l’ora di conoscerlo. Continuavo a ripetermi che finalmente sarei riuscita a incontrare quell’uomo tanto devoto. Il giorno in cui sono andata da lui, a ogni passo mi sembrava di incappare in un qualche episodio di razzismo o sessismo. Quando sono arrivata lì, la prima cosa che mi è uscita di bocca è stata: «Sono così arrabbiata!». Lui, l’emblema della calma e della tranquillità, mi ha risposto: «Allora tieniti stretta la tua rabbia e usala per concimare il tuo giardino». E io mi sono detta: «Sì, ha ragione, ce la posso fare!». Racconto questo aneddoto ogni volta che posso. Gli ho spiegato delle difficoltà che avevo con il mio compagno di allora e lui ha risposto: «Si può dire a qualcuno che lo si vorrebbe ammazzare, ma poi è importante fare un passo indietro e ricordare cosa ci ha fatto gravitare verso quella persona in prima battuta». Trovo che pensare alla rabbia come a un concime aiuti a concepirla come un’energia che può essere riutilizzata per fare del bene, capace di darci forza. Se non la si concepisce così, si rischia che diventi una forza debilitante e distruttiva.

G.Y. Dato che hai citato Sara Bland e che ci sarebbero tanti altri casi da menzionare, come possiamo sfruttare il trauma che stanno vivendo le persone di colore, o trasformare quel trauma in concime? Come possono riuscirci i neri? Come ci si può riuscire a livello terapeutico o collettivo?

b.h. Bisogna voler essere sinceri. E per essere sinceri bisogna dire che il problema che si trovano ad affrontare le persone di colore, il trauma del suprematismo bianco nelle nostre vite, non si limita alla brutalità della polizia. Quello è semplicemente uno dei tanti aspetti. Ripeto sempre che il problema, per i giovani ragazzi neri, è la strada. Se non hai nient’altro che quello, attorno a te c’è solo violenza: la violenza dei neri contro i neri, la violenza delle dipendenze, la violenza della polizia. Perciò la domanda è, in questo momento della storia, con tanti neri facoltosi e tanti neri di talento, come facciamo a dare ai maschi neri un posto che non sia la strada? Parlo dei maschi perché la strada, in un patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco, è degli uomini, soprattutto quando fa buio. La sensazione di spaesamento va ben oltre il trauma del razzismo. È il trauma del patriarcato capitalista, imperialista e suprematista bianco, perché la povertà è diventata infinitamente più violenta di quando ero bambina. Allora si viveva accanto a persone di colore molto povere, che però avevano vite felici. Oggi la povertà non è più così.

G.Y. Che cosa è cambiato?

b.h. Ammettiamolo: insieme all’integrazione, i bianchi ci hanno aperto le porte della tormentosa realtà del desiderio e dell’idea di un consumo costante. Parte della differenza tra la povertà di ieri e di oggi è legata a fantasie irrealizzabili, all’idea che prima o poi si vincerà alla lotteria, che i soldi arriveranno. Penso spesso alla madre di Lorraine Hansberry che, in A Raisin in the Sun, dice: «Da quando i soldi sono diventati la nostra vita?». Credo che, nella povertà della mia infanzia, in cui sono cresciuta e che mi circondava, la sensazione fosse sempre che il denaro non era tutto nella vita. Oggi, invece, le cose sono molto diverse, perché la maggior parte della gente, nella nostra cultura, crede che i soldi siano tutto. Il principale legame tra neri, bianchi, ispanici, nativi e asiatici è l’avidità, il materialismo su cui tutti investiamo e che condividiamo.

G.Y. Nel sentirti dire così, già mi vedo i lettori dire che bell patologizza gli spazi dei neri.

b.h. Come ho già detto, questa società ha normalizzato la malattia mentale. Perciò non sto patologizzando gli spazi dei neri, sto dicendo che la maggior parte degli spazi culturali nella nostra società è pervasa da questa patologia. È per questo che è così difficile uscirne, perché è parte della cultura che ci viene propinata ogni giorno. Nessuno di noi può sfuggirle, se non vivendo e amando con coscienza, cosa sempre più difficile per tutti. Non mi faccio certo problemi a dire che i traumi provocano delle ferite e che la maggior parte delle nostre ferite, come afroamericani, non è stata ancora sanata. In questo senso non siamo poi così diversi da tutte le altre persone che sono state ferite. Ma diciamocelo: i bianchi, se feriti, spesso riescono a nasconderlo meglio perché hanno maggiore accesso al potere materiale.

Trovo affascinante che ogni giorno uno possa andare al supermercato, guardare le persone, guardare noi e poi vedere i mass media che non fanno altro che sbandierare i dolori e i problemi mentali dei bianchi ricchi nella nostra società. È come se tutti accettassero di passarci sopra. Nessuno si chiede mai: «Perché non patologizziamo i ricchi?». Siamo davvero convinti che siano affetti da malattie mentali e come tali meritino di essere curati. Il problema di noi neri è che pochissime persone credono che meritiamo di essere curati, per cui i sistemi capaci di promuovere questo tipo di cure nelle nostre vite scarseggiano. Il sistema che più promuove l’idea di guarigione tra le persone di colore è la Chiesa, ma sappiamo tutti cosa succede in gran parte delle chiese, oggi. Sono diventate un’estensione dell’avidità materiale di cui parlavo prima.

G.Y. Mentre raccontavi di quando sei stata fermata dalla polizia, mi è venuto in mente il tuo libro Black Looks: Race and Representation, in cui parli della bianchitudine come fonte di terrore. È ancora così?

b.h. Penso che sia ancora così per la maggior parte delle persone di colore. Un saggio, in particolare, Representation of Whiteness in the Black Imagination, parla della bianchitudine, dell’immaginario dei neri e di come molti di noi vivano nel terrore dei bianchi. Ho voluto sottolineare la storia del poliziotto perché in molti di noi questo terrore si è solo intensificato. Penso che la maggior parte dei bianchi non pensi neppure che le persone nere possano volere degli spazi riservati ai neri perché altrimenti non si sentono sicure.

Nel mio ultimo libro, Writing Beyond Race: Living Theory and Practice, ho davvero voluto sollevare la questione, problematizzandola: Dove ci sentiamo sicure, noi persone nere? A me viene sempre da tornare alla casa come luogo di possibilità spirituale, alla casa come luogo sacro.

Ho comprato la casa in cui vivo da un uomo bianco, conservatore e capitalista che abita dall’altra parte della strada e non potrei esserne più felice. Spesso dico che, quando apro le porte della mia casetta, è come se ne uscissero delle braccia che mi stringono in un abbraccio. Credo che tutto questo sia parte della nostra resistenza radicale alla cultura della dominazione. So che quell’uomo di certo non si immaginava una come me in quella casa. Si immaginava una bella famiglia bianca con due bambini e credo che per certi versi per lui sia stato davvero difficile vendere casa sua a una donna di colore radicale, una nera radicale e femminista. Penso che tutti noi, se amiamo la nostra casa, ci facciamo un’idea di chi ci piacerebbe vederci vivere dentro. Ma credo che i neri, di qualsiasi classe, in generale, debbano riappropriarsi di quel senso di resistenza a partire dalla casa.

Se si pensa alla storia di coloro che hanno lottato contro il razzismo, tra i neri, gran parte dell’attività organizzativa avveniva nelle case. Mi viene sempre in mente Mary McLeod Bethune: «Iniziate l’università dalle vostre stanze». L’autodeterminazione parte dalle nostre case. È sempre più evidente che una delle ragioni del fallimento di tanti movimenti neri di lotta al razzismo è che non hanno mai considerato la casa un focolaio di resistenza. Ci siamo ritrovati con persone profondamente ferite che cercavano di organizzare dei movimenti in un mondo esterno a quello della casa, ma che in sostanza non erano nelle condizioni psicologiche adatte a essere dei capi.

G.Y. Ecco, a questo proposito passerei a una domanda sulla tua idea di “cura dell’anima” negli uomini di colore. Cosa comporta curare l’anima degli uomini di colore? E che ruolo pensi che svolgano le donne di colore nell’aiutarli?

b.h. Di tanto in tanto, George, mi capita di scrivere un libro che passa quasi inosservato. Tra questi ce n’è uno che parla proprio della mascolinità nera: We Real Cool: Black Men and Masculinity. Uno dei capitoli più toccanti di quel libro è quello in cui uso la metafora di Iside e Osiride. Osiride viene attaccato e smembrato, i pezzi sparsi ovunque. Iside, madre, sorella e amante severa, va a recuperarne le membra e le rimette insieme. Quella metafora di attrito e armonia che può essere la cura dell’anima per le persone di colore è estremamente reale per me. A volte mi rattristo perché credo che la nostra cultura abbia la tendenza a tenere uomini e donne di colore ancora più lontani gli uni dagli altri, anziché farci incontrare in un luogo di storia condivisa, di passato condiviso.

Sono molto grata per gli amici maschi neri che ho nella mia vita. Come tante donne in carriera nere, non ho un compagno. Mi piacerebbe averne uno, ma sono grata di avere amici e sodali di colore affettuosi e consapevoli, che mi trattengono dall’integrare la mascolinità nera, circondandomi di una neritudine piena d’amore.

Rapporti come questi sono molto preziosi. Sono i momenti più costruttivi della nostra epoca, ma non vengono trasmessi in televisione. Quando Malcom X ha detto che dobbiamo guardarci l’un l’altro con occhi nuovi, penso sia lì che inizia l’autodeterminazione e la capacità di rapportarci gli uni agli altri. Diciamocelo, troppi uomini e donne di colore hanno sofferto di un totale abbandono dal punto di vista mentale e, più che la brutalità della polizia, per molti di noi è quella la fonte principale del trauma. Il tradimento ha sempre a che fare con l’abbandono. E molti di noi sono stati abbandonati emotivamente. Queste sono le ferite che è importante curare a dovere per consentire davvero ai bambini neri e birazziali di potersi prendere cura di sé nella maniera migliore per tutti.

G.Y. Le tue pratiche buddiste e le tue pratiche femministe si consolidano a vicenda? Se sì, come?

b.h. Ah, posso dire che la mia pratica da cristiana buddista per me è una sfida continua, al pari del femminismo. Ma il buddismo è una fonte di ispirazione continua perché c’è molta enfasi sulla pratica. Che cosa fai? Retta sussistenza, retta azione.[2] Siamo tornati a quel mettersi in discussione che è fondamentale. È buffo che tu abbia tracciato un collegamento tra buddismo e femminismo, perché credo che una delle questioni su cui più mi trovo a riflettere in questa fase della mia vita sia in quale misura i valori etico-spirituali essenziali abbiano costituito le fondamenta della mia esistenza. Fondamenta che mi derivano sia dal buddismo sia dal cristianesimo, mentre il femminismo è stato ciò che, da giovane donna, mi ha aiutato ad arrivarci e ad apprezzarli. La spiritualità per me è arrivata tramite l’amore per la poesia Beat. Sono giunta al buddismo tramite la generazione Beat, tramite Gary Snyder e Jack Kerouac, che mi hanno concesso uno spazio dove mettere radici.

Oggi parlo di spiritualità più di quanto non abbia mai fatto prima perché vedo i miei studenti soffrire più di quanto non sia mai accaduto prima, specialmente le studentesse, che hanno la sensazione di dover soddisfare delle aspettative esagerate. Da un lato devono essere uguali agli uomini ma dall’altro, se eteronormative, devono dimostrarsi sottomesse, devono trovare un partner. Ci si aspetta così tanto da loro che in molti casi si lasciano andare alla depressione, alla tossicodipendenza o al suicidio. La spiritualità, invece, è in grado di dare loro delle basi solide.

Il femminismo non è tra i miei fondamenti. La base della mia vita è la disciplina derivata dalla pratica spirituale. Se vogliamo parlare di che scrittrice disciplinata sono stata e vorrei continuare a essere, quella disciplina mi deriva dalla pratica spirituale. Una pratica da ripetere ogni singolo giorno, ancora e ancora.


[1] Riferimento alla frase cardine del volume Casa Howard, di Edward M. Forster, qui riportata nella traduzione di Lucia Chiarelli (Feltrinelli, Milano 1997). [N.d.T.]

[2] Precetti V e IV del “nobile ottuplice sentiero” del buddismo. [N.d.T.]

Traduzione di Camilla Pieretti.

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