ARTICOLO n. 25 / 2023

ARTE O VANDALISMO?

Arte activa volume 1

Quando un’opera d’arte viene aggredita, per qualche tempo i titoli dei giornali e le bacheche dei social si gonfiano di indignazione. Sporcare una cornice, tagliare una tela, scrivere uno slogan su una statua, che si tratti di azioni simboliche o reali, in molte persone scatenano un biasimo pari se non superiore a un attacco alla loro proprietà – e in un certo senso è comprensibile, perché l’arte è un bene comune.

Il caso più recente è quello dell’attivismo ambientale legato a gruppi come Just Stop Oil e Ultima Generazione, che hanno attirato l’attenzione attraverso azioni che consistevano principalmente nell’incollare o sporcare con vernice lavabile i vetri protettivi di alcune importanti opere d’arte. La logica dichiarata dietro queste proteste, che si sono ripetute in vari musei europei, è che l’impegno profuso per preservare le opere d’arte non è commisurato a quello dedicato a evitare eventi che mettono a rischio la sopravvivenza della specie umana che produce e ammira quest’arte. In tempi meno recenti è accaduto per l’abbattimento o la vandalizzazione di statue considerate celebrative verso persone o eventi tutt’altro che positivi. Tra i tanti idoli caduti (o macchiati) c’è la statua di Jefferson Davis a Richmond (USA), presidente degli stati confederati e combattente nella guerra di secessione, la statua di Edward Colston, uno dei benefattori della città di Bristol, ma anche uno schiavista responsabile del commercio di decine di migliaia di persone dell’Africa occidentale. In Italia non sono al corrente di statue abbattute, ma c’è chi ha sporcato più volte la statua del giornalista Indro Montanelli, per rivalsa verso il suo passato fascista e colonialista, mai rinnegato. Chi non si è scandalizzato per questi eventi o li ha valutati positivamente è possibile che non abbia ben accolto la distruzione da parte del governo talebano delle antiche statue dei Buddha di Bamiyan nel 2001.

Se mettiamo da parte una reazione immediata ed emotiva, non è facile spiegare cosa accomuna e cosa differenzia queste azioni. Si tratta di attacchi all’Arte o addirittura di una sua manifestazione? Per facilitare l’analisi è anzitutto necessario fare qualche distinzione. Semplificare il mondo in dicotomie è una tendenza che porta spesso a gravi errori, perché di rado troveremo qualcosa di genuinamente binario in questo vasto e vario mondo; nel caso specifico, etichettare come “violenza” tutte queste azioni per darne un giudizio analogo è un po’ come considerare un omicidio e l’uccisione di una zanzara allo stesso modo, in quanto entrambi atti di violenza. Al netto della grande questione della liceità della violenza in determinati contesti, stiamo parlando di casi molto diversi, perché in nessun modo aggredire simbolicamente un’opera per attirare l’attenzione su una tematica ecologica è equiparabile a distruggerla in quanto giudicata blasfema. Se però il gesto di Ultima Generazione e quello dei talebani non è comparabile, questo non significa che quest’ultimo – che, a scanso di equivoci, condanno – sia un affronto all’Arte.

Partiamo da una banalità: le opere d’arte non sono eterne, perché nulla lo è. Non solo prima o poi saranno tutte distrutte in qualche modo, ma la loro identità è soggetta a un continuo mutamento anche nel (raro) caso in cui il loro supporto materiale resti perfettamente integro, perché a mutare è il contesto in cui sono situate. La Monna Lisa, per fare un esempio, non ha subito alcun danno fisico dall’operazione artistica di Duchamp o di Andy Warhol, ma la sua portata simbolica è inevitabilmente mutata; per il banale scorrere dei secoli, perché le nuove generazioni guardano con occhi nuovi le opere antiche, ma anche per la stratificazione di significato che altre operazioni artistiche (come quella di Duchamp o Warhol) hanno posato su di essa. Le opere d’arte sono delle prassi simboliche intense e operative, che l’uomo si tramanda di popolo in popolo e di generazione in generazione. Non sono mai inerti e agiscono diversamente in base al contesto. Le statue dei Buddha, che per me sono delle inestimabili opere d’arte e la testimonianza di una filosofia millenaria, nel contesto culturale dei talebani sono delle blasfemie.

Se il distinguo con l’operazione di Warhol, Duchamp o Ultima Generazione è semplice, perché sono casi in cui l’opera d’arte ha subito una naturale risemantizzazione senza subire alcun danno fisico – cosa che potremmo anche tradurre: senza eliminare la possibilità dei suoi significati precedenti – nel caso delle statue colonialiste o dei Buddha di Bamiyan la situazione è ben diversa. Ma perché, mi sono chiesto, sono d’accordo con l’abbattimento della statua a Bristol e contrario alla distruzione di quelle a Bamiyan? I motivi sono essenzialmente due. Il primo è legato a un’adesione etica: per motivi che qua non è necessario specificare sono simpatetico verso il messaggio politico dei manifestanti di Bristol e contrario a quello dei talebani. Il secondo è un’istanza estetica: non considero la statua di Edward Colson (o quella di Montanelli, se è per questo) rilevante dal punto di vista artistico, a differenza dei Buddha di Bamiyan. A conferma di questo va detto che se Giuliano de’ Medici fosse stato un orrendo despota schiavista, non per questo avallerei la distruzione della statua di Michelangelo Buonarroti. Un po’ è perché le ferite più lontane nei secoli non fanno più male (distruggereste una statua a Gengis Khan?), ma molto è per via del valore artistico dell’opera, motivo per cui non abbatterei nemmeno il complesso dell’EUR, nonostante la sua ascendenza fascista. Per quanto suoni banale, abbattere delle statue “brutte” è incommensurabile rispetto ad abbatterne di “belle”, quale che sia il loro valore simbolico; spiegare la differenza però non è facile, dato che non esiste alcun criterio oggettivo di bellezza artistica. Ciononostante non penso che ci sia qualcosa di anti-artistico in questi atti, perché tutti si muovono all’interno della normale vita dell’opera d’arte, ovvero una continua e operativa risemantizzazione, la cui durata coincide con l’interesse della nostra specie. Senza una sufficiente motivazione a preservarle, infatti, difficilmente le nostre opere ci sopravvivono.

A questo si affianca il fatto che l’iconoclastia è una prassi che torna spesso all’interno della stessa storia dell’arte, sebbene con oggetti diversi. Il caso più celebre è forse il Futurismo, che sin dal Manifesto decreta: »Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie». Un caso meno noto è quello del Situazionismo, che come riporta Stella Succi in un interessante articolo sul vandalismo nell’arte, si schierò a favore dell’accoltellamento da parte del pittore Nunzio Van Guglielmi della tela dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, conservata alla Pinacoteca di Brera di Milano:

L’artista Asger Jorn interviene a sua difesa, stilando, il 4 luglio 1958, un documento che firma a nome della Sezione Italiana dell’Internazionale Situazionista [sic]: «Noi situazionisti protestiamo contro l’internamento ipocrita in un manicomio di Nunzio Van Guglielmi, perché in giugno a Milano è arrivato a scalfire leggermente un mediocre quadro di Rafaello. Noi constatiamo che il contenuto del manifestino posto da Guglielmi sul quadro di Rafaello (…) esprime il voto di un grande numero di italiane col quale siammo. Vogliamo quindi attirare l’attenzione sul fatto che esso sarà un crimine contro la vera scienza psichiatrica di interpretare, col’aiuto della polizia psichiatrica, un gesto ostile alla chiesa ed al defunto valore culturale dei Musei, come una prova sufficiente di follia. Sottolineiamo il pericolo che presenta una tale precedenza per tutti gli uomini liberi e per tutto il futuro sviluppo culturale ed artistico».

Quale che sia la nostra opinione riguardo ai casi particolari, come ha modo di sottolineare Succi, «che l’abbiano preso o meno in considerazione, gli attivisti di Just Stop Oil e Letzte Generation hanno compiuto un’operazione simile: hanno riportato la Primavera, i Girasoli, la Ragazza con l’orecchino di perla dalle sale cimiteriali dei musei, dalle calamite per il frigorifero, dalle shopper museali alle nostre vite». Questo perché, che si tratti di baffi o di vernice, di collage o tagli, machine learning o dinamite, ogni azione su un’opera d’arte ne muta il significato, e, anche se apparentemente la uccide, la rende vitale. Nel commentare la distruzione dei Buddha da parte dei talebani, Fabrizio Rondolino scrisse su La Stampa del 14 marzo 2001, che: 

«Il diritto di erigere statue, che nessuno finora ha messo in discussione, deve infatti contemplare il diritto di abbattere altre statue. Si tratta anzi di uno stesso diritto, che appartiene al vincitore di turno non importa se politico o religioso proprio in virtù della vittoria conseguita. Forse, parafrasando Brecht, si potrebbe sostenere che è felice quel popolo che non ha bisogno di statue. Ma finché qualcuno vorrà erigerle, qualcun altro potrà abbatterle. La storia, al pari della natura, non è un museo da conservare intatto per turisti distratti, ma un movimento incessante che alterna creazione e distruzione. Non si può conservare tutto. Purtroppo, non sempre possiamo decidere che cosa tenere e che cosa buttare».

Credo che il fulcro sia proprio in quel “poter decidere o meno che cosa tenere e che cosa buttare”. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che la distruzione dei Buddha a Bamiyan non è sbagliata perché “non si deve toccare le opere d’arte”, ma perché la nostra cultura ci ha insegnato – e noi siamo d’accordo – che certe opere d’arte vadano preservate, che non c’è nulla di blasfemo nel buddismo e che i millenni lavano la portata etica delle vestigie storiche. O anche, semplicemente, che erano delle statue bellissime. L’arte è un processo di continua significazione, distruzione e risignificazione, motivo per cui anche distruggere un’opera è farla parlare: bisogna però capire se siamo d’accordo con questa sua nuova voce.

C’è una prassi che esemplifica bene la natura antinomica della questione, ovvero il caso del reimpiego. Questa pratica, che consiste nel riutilizzo di materiali da costruzione esistenti come sculture ed elementi architettonici, era molto comune nell’antica Roma e nell’Europa medievale. In molti casi i materiali reimpiegati venivano incorporati in altre opere d’arte, in modo da conferire loro un nuovo significato e una luce più in linea con la morale dei tempi. Così le antiche colonne e i capitelli romani venivano riutilizzati nelle chiese e nei monasteri medievali, dove venivano adattati alla nuova iconografia religiosa. Ecco il paradosso: queste opere d’arte, che ora giudichiamo inestimabili, sono nate grazie alla distruzione di opere altrettanto inestimabili – sia condannare che avallare questa pratica implica dunque l’inesistenza di opere d’arte.

Per risolvere questo dilemma mi sono rivolto a ChatGPT, un motore per la creazione di testo su base statistica che spesso si dimostra una sorta di enciclopedia vivente dei nostri pregiudizi. La sua risposta, frutto di tira e molla e prompt engineering, è stata interessante: «È importante notare che il riutilizzo di materiali di riuso nell’arte antica e medievale era generalmente una pratica eseguita con l’approvazione di chi deteneva il potere. La distruzione di opere d’arte esistenti senza autorizzazione o autorità non è una forma legittima di espressione artistica e può essere vista come una violazione dei diritti dell’artista e del proprietario dell’opera». Insomma, il vandalismo è tale solo se il consesso sociale lo condanna. Più avanti, ChatGPT mi ha suggerito che nel caso della creazione di una nuova opera d’arte attraverso la distruzione di un’altra il valore della prima dipende da una serie di fattori, tra cui il merito artistico della nuova opera, il significato culturale e storico dell’opera distrutta e il contesto in cui la nuova viene creata. In definitiva, secondo questa esternazione della mente popolare collettiva «il valore della nuova opera sarà determinato dal giudizio collettivo di storici dell’arte, critici e pubblico».Ricorda l’arguta espressione di Dino Formaggio, che nel 1973 scrisse che »l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte». Una definizione meno ingenua e soprattutto più precisa di quel che potrebbe sembrare, perché di fatto è l’unica che non viene in qualche modo smentita da qualche argomento o prassi artistica. Dobbiamo dunque guardare al “vandalismo” verso le opere d’arte come a una pratica più complessa e meno anti-artistica di quel che sembra, in quanto ci informa del modo in cui una determinata società reagisce e parla ai (e con i) simboli del passato. Ogni opera è collettiva, ogni linguaggio vive distruzioni e rinascite. La domanda che dobbiamo porci non è se sia giusto o meno distruggere un’opera d’arte, quanto piuttosto: cosa ci dice questo intervento? Come risemantizza l’opera? Qual è la nostra reazione al nuovo significato?

ARTICOLO n. 93 / 2024