ARTICOLO n. 56 / 2024

ANONIMO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

Qualcuno, presumo un uomo, a un certo punto ha sentito il bisogno di scrivere il proprio nome dietro un vaso in terracotta che aveva appena realizzato, uno lo ha guardato, un terzo lo ha imitato. Qualche tempo dopo, qualcun altro ha pensato di poter rivendicare un valore economico discendente da quel nome; altri poi hanno fatto in modo che quei nomi valessero di più degli oggetti che firmavano. Su ogni idea che apparisse minimamente nuova ci si è affannati a mettere ciascuno la propria bandierina: i nostri bisnonni hanno inventato la proprietà intellettuale, i brevetti come “combustibili dell’interesse sul fuoco dell’ingegno”; i nostri figli hanno la cenere firmata.

Una delle critiche che sento fare più spesso da chi osserva i progetti è la mancanza di originalità di qualcosa; e parallelamente una delle ossessioni che riscontro di più nelle generazioni più giovani dei progettisti è l’ostinazione a inventare qualcosa di nuovo e immediatamente dopo trovare il modo per proteggere quella cosa dalla possibilità che qualcun altro la copi: non solo dare il proprio nome, ma evitare che qualcun altro metta il suo. E nel frattempo non succede assolutamente niente: abbiamo tantissime bandierine e pochissime idee nuove su cui metterle. Da una parte infatti l’accesso ai mezzi di produzione aperto a tutti ha messo sempre più persone nella condizione di poter fare. Dall’altra questo fare, produrre, immettere cose nel mondo con il proprio nome, che forse doveva servire come dispositivo inconscio per lasciare tracce di sé, rimandare i conti con la nostra inevitabile mortalità, ha accelerato lo schianto contro il limite delle risorse, forse non solo strettamente materiali, e così sono finite, prima di noi. Viviamo in un tempo storico fatto di linguaggi, prodotti, progetti, interventi ma anche ideali premasticati dal Novecento. Prendiamone atto: è molto più comune liberarci di cose, ma anche pensieri, idee, fedi, ideali, amori, stili appena nati, che non di quelli che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Ma a meno di non volerci condannare alla noia del già visto, alla frustrazione del già pensato, all’infelicità del già fatto, se qualcosa di radicalmente nuovo non è possibile e non è immaginabile, forse dev’essere possibile immaginare almeno di rinunciare al “nuovo” come sinonimo di buono, interessante, degno. Decolonizzare l’approccio al fare. Liberare il fare dall’essere, avere, apparire. E, qui la dico grossa: ripensare quello che esiste fuori dal codice della paternità tradizionale. Togliere i nomi propri alle cose. Portiamo l’anonimo nel futuro.

Ora, voler portare “l’anonimo” nel futuro, fin qui, potrebbe sembrare più una reazione al dilagare di facce e nomi e firme e loghi e storie di sé ovunque, e un po’ effettivamente lo è. Ma non è solo un manifesto contro, è credo anche un antidoto per provare a salvarci dall’infelicità in cui ci schiacciano le unità di misura che abbiamo utilizzato finora per raccontare quello che abbiamo intorno: elenchi, novità, sapere, produzione, profitto, eroi, geni, protagonisti, artefici, successo, lenti attraverso cui ci arriva ogni cosa, anzi peggio, attraverso cui ogni cosa esiste oppure no.

Abbiamo compilato cataloghi di nomi, abbiamo fatto mostre intorno ai nomi, abbiamo scritto storie che sono elenchi di nomi, più o meno illustri, abbiamo raccontato i picchi della linea continua che li produceva, abbiamo registrato quello che stonava più del rumore bianco di sottofondo che lo faceva risuonare; abbiamo sostituito le immagini delle cose con le gigantografie dei loro autori; l’io, l’io, l’io, la messa in mostra della propria biografia. Bruno Munari, che proveniendo dall’avanguardia futurista se ne intendeva di vertigini dell’io, si era spinto a formulare la proposta di dare il prestigioso premio “Il Compasso d’Oro” a ignoti, ovvero a tutti quei tecnici, ingegneri, designer anonimi che avessero progettato cose d’uso non migliorabili, sensate, cioè pensate, semplici, pratiche, accessibili, intelligenti, spontanee, disintermediate. Riccardo Dialisi, che era stato tra i fondatori del movimento radicale di Global Tools, tra i primi e gli unici a rilanciare davvero l’artigianato non solo come espressione mondana, e a generare nella periferia napoletana alcune delle più interessanti espressioni di design dal basso, proponeva di sostituire il premio con il Compasso di Latta. Io dico: lasciamo perdere i premi. E lasciamo perdere pure i soggetti.  

Quando parlo di “anonimo”, infatti, io mi spingo un po’ più in là. Non è tanto questione di persona singolare o plurale, perché – a meno delle cose in natura, per le quali, infatti, pur di dare un autore, ci siamo dovuti inventare che sono creazioni di Dio – ogni cosa ha sempre almeno un io, un tu o un lui o in alcuni casi una stratificazione di interventi di noi, voi, essi all’origine della sua storia, e che spesso è un limite nostro non conoscere o riconoscere (o se non nostra, è colpa delle didascalie a non trasferirceli nel modo debito e corretto). Con “anonimo” non mi riferisco al soggetto, che proprio vorrei ci disinteressasse, ma all’oggetto, e indico quella produzione della cultura materiale o visiva per la quali Gio Ponti aveva trovato una definizione bellissima e contraddittoria: perché “anonimi” è un aggettivo delle cose per dire che sono cose senza aggettivi: cose che sembrano essere sempre state lì e che danno l’idea che lo saranno per sempre, cose senza segni, senza tempo e senza geografia, eppure al tempo stesso assolutamente generate in una storia e in uno spazio a volte molto precisi. Macchine minime, si dice con un’altra espressione felice: derivate direttamente dalle ragioni della loro materia, della loro pratica, della propria storia produttiva. Cose che non hanno un nome proprio, o ne hanno assorbiti molti e diversi a seconda del tempo e delle latitudini in cui sono nate. Cose senza bandierine.

L’“anonimo” non necessariamente è l’“archetipo”, e nemmeno il “prototipo” o l’“oggetto primo” o “platonico”, perché all’anonimo non interessa il primato, sta in terra e non nell’aria, non è un simbolo, né un segno, né un segnaposto, non è una cosa che sta al posto di un chi

Ma soprattutto l’anonimo non è l’anonimato. Non è la negazione del proprio nome o la volontà di tenerlo nascosto, è il nessuna volontà del nome. Non è la maschera attraverso cui lasciare segni, è il non segno. Non è la firma che dichiara “non mi troverai mai”, è l’oggetto che dice di “non perdere tempo a cercare la firma”. Non è l’io, è il noi. Non è il prima, è l’oltre. Quindi, ripensandoci, forse non è nemmeno da portare nel futuro, perché lo troveremo già lì.

ARTICOLO n. 63 / 2024