ARTICOLO n. 71 / 2022
ANDATA & RITORNO
Lo spaccio di droga riguardava soprattutto l’area metropolitana: zone centrali, semicentrali e periferiche, all’interno di parchi cittadini, attorno alle panchine, alle fontanelle d’acqua. L’area di spaccio era la piazza di spaccio.
I consumatori erano i drogati, per lo più giovani. Difficile immaginare un drogato trentenne: in quel periodo storico, un trentenne non era più considerato giovane; e inoltre, dopo una dozzina d’anni di eroina, i drogati o smettevano o morivano poiché, molto spesso, l’unico modo per smettere era morire.
I drogati raggiungevano i luoghi dello spaccio utilizzando tram, autobus, metropolitana; capitava che arrivassero in motorino o in auto, ma quasi tutti, non soltanto per una questione economica, preferivano i mezzi pubblici: dopo la dose, gli effetti duravano fino a sei ore, era difficile e rischioso guidare un motorino o un’auto. I drogati acquistavano eroina dallo spacciatore abituale. Se non avevano il denaro, consegnavano un braccialetto d’oro, una catenina d’oro, oppure un’autoradio, e pagavano la dose con quella mercanzia.
I drogati spaccavano i finestrini delle auto parcheggiate pur di rubare un’autoradio nascosta sotto il sedile. Un’autoradio di qualsiasi marca. E tuttavia, nonostante le pubblicità dell’epoca, ho sempre associato le autoradio Pioneer ai minuscoli frammenti di finestrino sparsi sui marciapiedi, ho sempre associato le autoradio Pioneer all’eroina, ai drogati, agli spacciatori, ai ricettatori.
Certo, non era colpa dell’azienda Pioneer, ma forse non era nemmeno colpa dei drogati. Applicando la logica neoliberale, già così seducente alla fine degli anni Settanta, il rapporto tra eroina e Pioneer era soltanto un meccanismo di mercato, di richiesta e offerta.
I drogati si allontanavano di pochi metri dallo spacciatore, desideravano drogarsi subito. Sceglievano una panchina accanto alla fontanella. Stagnola, cucchiaino, limone, accendino, siringa. E tuttavia, alcuni preferivano un angolo meno frequentato, si sedevano appoggiandosi al tronco di un albero, forse per meglio assecondare, in quella natura allestita dall’istituzione comunale, l’effetto dell’eroina. Poi gettavano le siringhe a terra. A volte capitava che i drogati infilzassero le siringhe nel tronco dell’albero, e allora, da ragazzino, pensavo che la droga iniziasse a circolare nel resto dell’albero, salendo ai rami, alle foglie, e scendendo alle radici, e dalle radici al terreno. L’albero si sarebbe intossicato di eroina. La droga era l’elemento fondamentale della terra su cui camminavamo.
Drogarsi. Poi, crescendo, i più confidenziali farsi, bucarsi, spruzzarsi: il primo implicava una creazione, o almeno, una trasformazione non soltanto fisica; il secondo implicava il corpo, la ricerca della vena, il sangue, il flash rapido; il terzo, poco utilizzato, sembrava un gioco d’infanzia, superficiale e senza conseguenze. Ancora oggi, è scritto su alcuni dizionari: i bambini si spruzzano nell’acqua. Non con il significato di drogarsi, credo. Il significato gergale di spruzzarsi come drogarsi non è contemplato dai dizionari.
I drogati, smaltito a malapena l’effetto della dose, ritornavano a casa con i mezzi pubblici. Salivano sui tram, sugli autobus, sulle metropolitane, avanzavano trascinando i piedi, a volte barcollavano e biascicavano qualcosa, la bocca impastata, i denti e le gengive sofferenti. I drogati si addormentavano sui sedili, appoggiando la tempia al finestrino.
A volte, quando un drogato moriva, un articolo di giornale cercava di ricostruire chi fosse la vittima. In quel periodo, i giornali pubblicavano nome, cognome, età, indirizzo, professione. Se la famiglia del morto era proprietaria di un bar, i giornali pubblicavano il nome del bar, l’indirizzo del bar, i nomi e i cognomi dei genitori del morto, ovvero, i nomi e i cognomi dei proprietari del bar. Il giornalista ricostruiva le ultime ore di vita grazie alle informazioni ricevute dai poliziotti. L’acquisto incongruo di un limone in trattoria. L’incontro con lo spacciatore. Il buco. L’overdose. Il corpo disteso a terra, raggomitolato su se stesso, sotto un cavalcavia della tangenziale, mentre il traffico scorrevole continuava sopra la testa.
Ma poiché morivano molti drogati, i giornali, da metà anno in avanti, si limitavano a un breve articolo, a un trafiletto di cronaca: ricordavano soprattutto il numero dei tossicomani morti dall’inizio dell’anno. I giornali additavano la responsabilità ai fisici indeboliti dopo anni di eroina, alla droga tagliata con stricnina, alla droga tagliata bene ma utilizzata assieme ad altre sostanze – alcol, anfetamine, benzodiazepine, metadone – assunte prima della dose letale. Non si trattava quindi di overdose ma di una semplice dose, di usura del corpo.
Tra l’altro alcuni morti non entravano nemmeno nel computo: i morti di epatite, debilitati da decenni di droga.
Ogni epoca ha i propri bollettini.
Ogni epoca interpreta i numeri dei propri morti.
La città, per motivi di logistica e distribuzione, è ancora al centro dello spaccio di droga connesso alle mafie, alle tifoserie ultrà delle squadre di calcio legate alle mafie, oltre che a gruppi neofascisti; ma da alcuni anni, assieme alla moltiplicazione dei tipi di droga è iniziata una diffusione molto più capillare rispetto ai decenni scorsi. In Lombardia, è come se la droga seguisse l’andamento immobiliare e urbanistico, lo sprawl suburbano introdotto proprio negli anni Settanta; è come se la droga seguisse la trasformazione dei luoghi, di ciò che resta della natura relegata, tra tangenziali e capannoni, all’interno di parchi regionali e aree protette di interesse sovracomunale.
In Lombardia, l’istituzione di queste aree protette – sarebbe più idoneo definirle finte aree protette circondate dalla distruzione – risale alla seconda metà degli anni Settanta. Negli anni Settanta, queste zone erano luoghi che non avevano bisogno di alcuna definizione, erano zone frequentate da famiglie durante i picnic domenicali per le cosiddette gite fuoriporta. Oggi sono diventate zone di spaccio di droga. Spacciare eroina in una zona protetta, circondati da fossati, fontanili, all’ombra di pioppi, robinie, betulle. Spacciare cocaina con il sottofondo del canto degli uccelli, del rumore dei picchi che perforano le cortecce degli alberi. Spacciare hashish spostandosi all’interno dei boschi per evitare comunque i rarissimi controlli della polizia, seguendo i sentieri evidenziati dagli opuscoli e dai siti per le passeggiate salutari. Spacciare tutto, ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, come impone la logica contemporanea. Vivere, se necessario, proprio all’interno dei boschi, dentro capanne, occultando la droga altrove.
Le ordinazioni avvengono tramite WhatsApp. Gli spacciatori si spostano in punti prestabiliti, ai margini dei boschi, consegnano la droga, intascano i soldi, ritornano all’interno dei boschi.
Se leggiamo le cronache locali o quelli dei quotidiani nazionali, i drogati degli anni Settanta e Ottanta non esistono più: i drogati sono diventati i clienti o i consumatori, anche a seguito della differente modalità di acquisto della droga, una modalità automobilistica plasmata dall’espansione suburbana. Insomma, non più giovani in astinenza che arrivano con i mezzi pubblici, ciondolano attorno alle panchine metropolitane, ma auto anonime nonostante i numeri di targa, auto che costeggiano i bordi, i margini, dove l’asfalto lambisce le aree protette, auto guidate da invisibili, veloci acquirenti, che frenano, abbassano il finestrino, pagano, prendono, ripartono ancora più veloci, vanno al lavoro e quella è la droga per passare la serata. Qualora le zone di spaccio siano prossime al confine svizzero, ecco che i giornali preferiscono scrivere clienti svizzeri o clientela svizzera.
Mi rendo conto: scrivere drogati svizzeri o tossicomani ticinesi suonerebbe comico quasi quanto clientela svizzera.
Nell’intersezione tra spaccio, capannoni, aziende, aree residenziali costituite per lo più da palazzine e villette, è capitato che, nella stessa strada, si verificassero due situazioni in apparenza contrapposte: sul lato sinistro della strada, i tir entravano in retromarcia nelle piattaforme di logistica aziendale per caricare e scaricare le merci; davanti a un’azienda destinata alla chiusura a seguito delle solite delocalizzazioni internazionali, gli operai ai cancelli si aggrappavano a quanto restava del loro lavoro; sul lato destro della strada, invece, le vedette controllavano il flusso di auto di coloro che accostavano ai margini del bosco, in attesa degli spacciatori. Non è difficile immaginare, tra operai e spacciatori, quale delle due professioni abbia più futuro.
La diffusione capillare della droga, così come la dispersione suburbana abitativa e produttiva, non è meno cruenta delle dinamiche metropolitane degli anni Settanta.
I conflitti tra spacciatori, sebbene si svolgano in zone che la propaganda regionale lombarda vorrebbero idilliache e dedicate a sport, famiglie, bambini, finiscono, a volte, con gli omicidi. Dopo un omicidio, ecco la retata della polizia, qualche arresto, e poi lo spaccio di droga ricomincia. A differenza di un parchetto cittadino, controllare un’area estesa come un parco regionale o un’area protetta di interesse sovracomunale è un’operazione molto più complessa e dispendiosa, che necessita di parecchi poliziotti, carabinieri, finanzieri, cani antidroga. Ma al di là di questo aspetto economico, il vecchio quesito resta quanto mai attuale. Interessa davvero la lotta alla droga, in Italia? No. I partiti di destra lanciano saltuari e ipocriti proclami elettorali volti a militarizzare i boschi lombardi – anche perché, a differenza degli spacciatori neofascisti collegati alle curve ultrà, la maggioranza degli spacciatori boschivi è nordafricana, clandestina, e non vota – la droga, ancor di più che negli anni Settanta, è liberalizzata anche se non legalizzata.
Questa intenzionale opacità legislativa è la fortuna di organizzazioni criminali, di spacciatori grandi e piccoli. Questa opacità è possibile anche perché è cambiato il tipo di consumatore, tanto che è diventato difficile definirlo drogato o tossicomane, e non certo per un uso consapevole della lingua giornalistica.
Centellinare le vacanze, gli acquisti, la droga.
Centellinare per durare di più, per drogarsi più a lungo, sempre.
Le immagini del giugno 2022, di due ragazzi – definiti ragazzini da alcuni media – che sniffano cocaina su un vagone della metropolitana milanese ci ricordano i viaggi transoceanici della droga, la diffusione capillare in ambito urbano e suburbano, il ritorno alla metropoli. I due potrebbero essere seduti sulla panchina di un outlet. Indossano bermuda, magliette, calzano Nike e Diadora. Non sniffano nell’angolo di un parco cittadino milanese o ai margini di un bosco suburbano lombardo; sniffano seduti nel vagone Atm, vagone in leggero movimento, accanto a decine di altre persone.
Drogarsi con la certezza di essere ripresi dallo smartphone di qualcuno, di essere protagonisti indefiniti, immessi nel flusso della rete. Il ciclo è compiuto.