ARTICOLO n. 25 / 2024

ALMARE: INDIVIDUALITÀ E PROGETTUALITÀ CONDIVISA

conversazione collettiva

La creatività collettiva è da sempre presente nel panorama culturale italiano, ma raramente le viene rivolta la stessa attenzione riservata a quella individuale. Per fare luce su questo mondo, su come nasce e come si manifesta, stiamo curando Conversazioni collettive: una serie di interviste con diversi collettivi italiani svolte da noi, Montag, un collettivo di scrittura.

In questo secondo appuntamento abbiamo intervistato ALMARE, un collettivo artistico-curatoriale fondato a Torino nel 2017 da Amos Cappuccio, Giulia Mengozzi, Luca Morino e Gabbi Cattani. ALMARE indaga le pratiche artistiche incentrate sull’uso del suono come mezzo espressivo, ma in molti dei loro progetti si riconoscono più anime, vedendo come la scrittura narrativa o l’audiovisivo, per esempio, possono convivere nello stesso spazio performativo, espositivo o testuale con la dimensione sonora.

MONTAG: Sul vostro sito vi descrivete come “collettivo artistico-curatoriale”, ma che cosa significa per voi essere un collettivo? Cosa vuol dire collaborare, lavorare insieme? E un’altra curiosità: che significa per voi essere un collettivo che collabora con altri collettivi? Come fate rete? Pensiamo soprattutto alla recente collaborazione The listeners.

ALMARE (Amos): Vorremmo prima fare una premessa: siamo in un periodo complesso e articolato per il collettivo stesso, motivo per il quale abbiamo deciso di fare questo incontro. Ci piaceva l’idea di dare delle risposte in un momento difficile in cui stiamo passando una crisi – ma sì, chiamiamola crisi. Per quanto mi riguarda, il nostro collettivo sta proprio in quell’equilibrio tra individualità e progettualità condivisa.

Noi siamo quattro persone che dal punto di vista delle attitudini e delle esperienze hanno un filo conduttore, che è il percorso artistico. Non necessariamente nel fare arte in quanto artisti, ma come percorso di studio, di interessi; un percorso di vita, in cui la musica, l’arte in generale, il mondo della cultura sono centrali. Detto questo, abbiamo provenienze diverse anche da un punto di vista di classe, percorsi di vita che hanno direzioni e necessità diverse. E abbiamo sempre cercato, nella nostra impostazione, di far sì che ognuno di noi potesse essere rispettato nella sua individualità e nella sua necessità di portare avanti un percorso personale. Proprio perché ci siamo uniti in una fase che era di “fine scuola” – almeno io, Gabriele, Luca – e, come tante altre relazioni che nascono in periodi di transizione, poi si deve crescere insieme. C’è quasi un movimento ondulatorio, in cui ci si adatta alle necessità degli altri, ci si fa anche trascinare dagli altri, in modo positivo. Poi per ognuno diventa più chiaro in che cosa si sente a proprio agio e che cosa vuole fare. Per noi questo è il momento: abbiamo iniziato a capire tutti più chiaramente che cosa vogliamo, in cosa vogliamo andare avanti nelle nostre vite. E bisogna riuscire a capire quanto questa cosa si può fare insieme e secondo quali modalità.

Questa credo sia l’introduzione, ma forse anche già una parte del discorso. Poi nella pratica facciamo cose diverse. Gabriele, per esempio, ha un percorso più da artista e teorico. Giulia un percorso più curatoriale, anche lei teorico, però con un’attitudine diversa alla scrittura. Io un percorso da musicista e sound designer, come Luca, che è anche informatico. Questo ha fatto sì che le cose si unissero molto bene, ognuno ha potuto portare la sua specificità. Forse il film a cui stiamo lavorando ne è l’esempio maggiore. Detto questo, ci sono altri aspetti, che sono appunto le necessità della vita, del dove si vuole vivere, se nella stessa città o in città diverse, come organizzarsi il tempo, come comunicare. 

MONTAG: Vi siete conosciute a Torino. Si pone la questione della topografia del collettivo. Vi capiamo, lo stiamo vivendo un po’ anche noi.

ALMARE (Giulia): La nostra idea di collettivo si sta schiantando contro la vita reale, quando si incrociano delle necessità che impongono di rispettare l’individualità, comunque rimanendo nella volontà di lavorare insieme. Non so poi fino a che punto si possa dare una definizione univoca di collettivo. Nel caso di ALMARE l’idea di partenza era: che cosa vogliamo fare? A quali mancanze vogliamo provare a rispondere? A quali frustrazioni? Insomma, ci siamo chieste come costruire uno spazio di azione che da sole forse non avremmo saputo creare.

Un’azione trasformativa del proprio contesto, anche mediante iniziative che possono prendere varie forme, da un film che diviene audio-racconto all’organizzazione di concerti, alla scrittura, oppure, non so, passare la notte a parlare di cose. Eravamo quattro amici al bar, scusate la banalità, ma vi vedo sorridere, quindi magari sono esperienze comuni. L’essere collettivo ha a che fare con una agency condivisa. I collettivi, sia artistici che politici, alla fine sono persone che si uniscono per fare qualcosa. Se non c’è questa spinta bastano, credo, altri tipi di relazioni, amicali, ma se c’è un intento di unirsi in un organismo che supera le individualità forse è perché si sente la volontà di essere più efficaci nell’operare nel proprio contesto. Spero non sia troppo astratto come ragionamento.

MONTAG: Non sembra per niente astratto, anzi: l’agency condivisa, creare uno spazio d’azione comune, è un fare molto politico, ed effettivamente, addentrandosi nei vostri lavori, si legge di guerriglia sonora o di arma sonora. Come vi ponete rispetto a questo discorso, a questa vocazione politica, a questa voglia di cambiare le cose, sia in riferimento al vostro ultimo lavoro, Cronache di vita di Dorothea Ïesj S.P.U., sia rispetto ad altri lavori passati nei quali vi siete interfacciati con figure politiche, di lotta, come Porpora Marcasciano? 

ALMARE (Gabriele): Non so se esista un politico fuori da una visione, che poi è anche ideologica. E non c’è bisogno di aver paura di questo. Noi siamo quattro, e in questo corpo tetracefalo abbiamo visioni che guardano in una stessa direzione, forse politica, ma che si sono espresse anche in modi diversi e in attività diverse. Penso che Giulia e Amos abbiano una pratica più spiccata di attivismo, o di studio relativo a certe tematiche. Poi, una parte di questo studio e di questa pratica è entrata all’interno del collettivo, così come in Dorothea, ma come dicevate anche il nostro incontro con Porpora ha contato. In quel caso eravamo state invitate per lavorare su come il suono, e specialmente il suono registrato, occupa uno spazio, in senso molto pratico, architettonico. E dunque qual è la differenza tra uno spazio privato e uno spazio pubblico, che è anche performativo? E come scelgo di diffondere un suono che altrimenti rimarrebbe inciso? Quando abbiamo cominciato a organizzare delle sessioni d’ascolto o a ragionare su certe tematiche, è allora che queste sono emerse come urgenti: oggi il suono è rientrato nel dibattito sulla politicizzazione della memoria e su come conserviamo certi suoni, come vi abbiamo accesso. Penso che queste tematiche, poi, ci abbiano spinto a occupare in modo più trasversale diverse posture, con la volontà di porsi domande su questioni difficilmente riassumibili, che necessariamente aprono a una sorta di mimesi che spinge a chiedersi: “E io come lo farei? Come reagirei a questo stimolo?”

ALMARE (Giulia): Da questo punto di vista faccio una precisazione: fatico a arrogarmi il diritto di definirmi attivista perché per esserlo ci vuole una costanza, una coerenza e una capacità di impegnarsi rispetto ad alcune questioni che purtroppo, forse per uno spirito di autoconservazione o mantenimento di privilegi, sento di non avere appieno. Però è indubbio che c’è una sensibilità che va in quella direzione, un approccio politico. ALMARE ha sempre cercato con le proprie pratiche di creare operazioni culturali che potessero funzionare come piattaforma di supporto e diffusione di contenuti politici, che poi abbiamo condiviso con persone che invece possono a buon diritto dirsi attiviste. Penso a Justin Randolph Thompson, che abbiamo portato in una performance al compianto Macao e al festival Saturnalia nel 2018, poi sicuramente a Porpora Marcasciano, chi più di lei? Insomma, non voglio dire che un approccio politico sia il motore primigenio delle nostre collaborazioni, però c’è un’attenzione verso questo aspetto. Penso che chi fa attivismo abbia bisogno di piattaforme, di risorse. E nel suo piccolo ALMARE prova a contribuire. Questa è un’intenzionalità politica che ha un piccolo effetto sul piano del reale.

Poi c’è un lavoro di analisi e diffusione di contenuti che non è mai didascalico, perché non lo è il nostro linguaggio, che a tratti è anche abbastanza complesso e lì cerchiamo di fare il nostro per diffondere contenuti che sono esplicitamente politici. Si faceva riferimento ad esempio alla questione delle armi sonore, che è da intendersi come l’ha intesa Steve Goodman in Sonic Warfare. Nel contesto dell’audio-racconto l’abbiamo veicolata attraverso una storia fantascientifica che fa esplodere in maniera fantasiosa l’argomento, però per noi sono tutti strumenti di riflessione sulla realtà che viviamo tutti i giorni, e speriamo anche che lo siano per chi si imbatte nel nostro lavoro. Mettiamola così.

MONTAG: Partendo da Cronache di vita di Dorothea, volevamo farvi una domanda sul fronte artistico. Ci ha interessato molto come progetto perché è una creatura ibrida sotto moltissimi punti di vista: unisce sonoro, testuale, narrativo. Ma è anche ibrida dal punto di vista del genere narrativo, perché c’è da un lato il framework fantascientifico, ma dall’altro c’è anche quell’effetto quasi horror generato dal sentire la voce, il suono perduto di qualcosa quasi inarrivabile. Ne avete parlato anche in un post su Instagram, della possibilità di recuperare la voce di Gesù, che però chiaramente avrebbe un effetto orrorifico, perché parlerebbe in una lingua che a noi è completamente aliena, con inflessioni a noi sconosciute. Ci interessa questo vostro lavorare in maniera ibrida sia sul piano dei media che su quello dei generi. Per voi è una cosa naturale, lo decidete insieme…?

ALMARE (Giulia): Terrificante, ma anche comico. Sempre a cavallo.

ALMARE (Amos): I formati ibridi credo siano una delle scelte che più ci caratterizzano e interessano fin dall’inizio. Ci abbiamo sempre fatto attenzione, perché non volevamo bloccarci all’interno di una modalità di fare, di un formato o di un linguaggio. Di per sé questo audio-racconto si forma pian piano da un punto di vista formale, ma nasce prima di tutto come un racconto inteso proprio come una fiaba letta ad alta voce. Lo volevamo fare con uno stile che fosse vicino alla fantascienza dal punto di vista della scrittura, perché lì ci portava il tema dell’archeoacustica, che di per sé è fantascienza, ma nel senso che è una scienza che ancora non ha trovato delle risposte ai propri esperimenti, quindi è fantastica ed è qualcosa che ti devi per forza immaginare. Poi da un punto di vista formale, invece, all’inizio era semplicemente un audio-racconto senza sottotitoli. I sottotitoli sono nati come elemento funzionale e poi sono diventati centrali e necessari per portare fuori la voce e dargli una forma attraverso le lettere e le parole. Da lì ci sono voluti anni prima di arrivare a pensare che potesse essere considerato un film. Abbiamo avuto la fortuna che ci invitassero a fare la presentazione e ci dicessero “guardate abbiamo un cinema, vi va di farlo in un cinema?” E noi, “Ok, proviamoci”. Quell’esperienza lì, al cinema, è stata illuminante, perché abbiamo capito che effettivamente era un film. Lì prendeva forma nella postura che richiede il cinema, nello stare seduti, nell’ascoltare dall’inizio alla fine, nell’avere un grande schermo che ti attrae gli occhi e allo stesso tempo non c’è quasi nulla da vedere. Dall’altra hai anche la possibilità di avere un impianto audio che ti concede di spaziare, di lavorare sulla dimensione drammaturgica del suono. 

ALMARE (Giulia): Era il cinema Eliseo di Cesena, nel contesto della programmazione curata da MU, un’organizzazione composta da Enrico Malatesta, Glauco Salvo, Giovanni Lami. Tutte quelle ricerche che avevamo svolto in altri progetti, sia curatoriali che organizzativi, ci avevano portato a indagare certe tematiche che sono intrinsecamente legate agli albori di una tecnologia, di un modo di intendere la tecnologia, e che ci riguardano perché siamo ancora all’interno della modernità per quanto uno si sforzi a dirsi postumano. Nello specifico, Cronache di vita di Dorotea nasce da una ricerca legata alla registrazione, con la quale eravamo ossessionate nel 2019, e su cosa significa ascoltare e riascoltare, e se è possibile davvero ascoltare suoni registrati da noi stessi senza calcolare un interlocutore diretto: un’impressione sonora che non è finalizzata a una comunicazione intenzionale. Ci siamo accorte che le questioni che stavamo studiando andavano a smuovere tutta una serie di ambiti di cui noi non potevamo assolutamente occuparci. Allora abbiamo deciso di invitare autori, autrici, artiste, ricercatori, ricercatrici, che pensavamo potessero avere qualcosa da dire rispetto a questa domanda: che cosa significa autoregistrarsi? Il risultato è stata un’installazione sonora che abbiamo chiamato “Miscellanea” in riferimento a un format seicentesco, barocco, perché chiamarla archivio, database, non era abbastanza. La traccia dura 17 ore e raccoglie una serie di spunti sull’archeoacustica, una disciplina che indaga le proprietà acustiche dei siti archeologici per capire come sentiva la gente all’epoca dentro quei luoghi, come voleva far riverberare la voce.

Si tratta anche di un fantasioso sottobosco di teorie cospirazioniste e leggende metropolitane, legate a un’idea nata tra fine Ottocento e inizio Novecento: le persone attraverso queste tecnologie scoprivano che le onde sonore si imprimono nella materia e che poi, con degli strumenti appositi, è possibile riprodurre l’incisione discografica. Qualcuno si chiese: sarà successa la stessa cosa in tempi antichi? La voce di Aristotele sarà rimasta incisa su un vaso che qualcuno stava modellando in quel momento? Un’idea molto stimolante dalla quale è nato il what if del nostro racconto fantascientifico. Immaginate cosa succederebbe se questa ipotesi diventasse praticabile.

Qui la fiction arriva un po’ come reazione ai limiti della ricerca speculativa. Anche questo nasce da un’esperienza di ricerca condivisa e forse non ci saremmo mai arrivate se non avessimo fatto ricorso a ispirazioni portate dal coinvolgimento di altre persone. Abbiamo avuto la fortuna di poter approfittare in maniera quasi parassitaria di soluzioni che vengono dall’incontro con un’etichetta internazionale con cui abbiamo organizzato alcuni concerti a Torino. L’etichetta aveva poi coinvolto un’associazione torinese, Archivio Tipografico, che si occupa della conservazione della nobile arte della stampa a caratteri mobili. Il fatto che loro lavorassero alla riemersione di strumenti per la stampa risuonava con quella del suono, inciso e scavato come caratteri mobili, di cui parla il racconto. Il lavoro è, alla fine, un film, un piano sequenza che però è anche un’operazione di graphic design, ottenuta tramite processi analogici. L’effetto finale è quello di immagini che sembrano uscire dallo schermo, senza una funzionalità in sé, ma rinforzando ciò su cui volevamo lavorare, questa idea dello scavo archeologico, dell’emersione di strati diversi che poi si sintetizzano. L’interfaccia visiva ha assunto quasi magicamente un ruolo sintetico, una ragione quasi autonoma. E, anche qui, non avremmo potuto farlo senza entrare in relazione osmotica con il lavoro di altri collettivi.

MONTAG: Volevamo proprio andare a scavare su quanto fosse importante per voi il rapporto tra sonoro e visivo. Poi con il discorso sul collaborare e intrecciarsi con altre realtà ci avete fatto pensare a Kathy Acker, che seguiva un’etica molto punk, appropriazionista, e le sue opere cercavano di mostrare come tutto viva di una intertestualità e sia, in fondo, una sintesi di appropriazioni. Ci sembra che anche il modo in cui decidete di lavorare mostri il bello di una sintesi simile, fatta di tutti gli scambi e le collaborazioni che avete attraversato, sia tra di voi che con altre realtà. Tutto ciò, in un certo senso, rimane. Ecco, lo sottolineiamo perché sulle cose di cui abbiamo parlato aleggia una certa ossessione per l’inciso, la memorizzazione, qualcosa che viene salvato. Noi, nella nostra esperienza con la scrittura performativa, ci siamo confrontati con il dilemma inverso: situazioni di creazione collettiva in cui, alla fine, se l’opera finale scompare, che problema c’è? Cosa cambia, insomma, se dell’esperienza sonora o narrativa non resta assolutamente niente, se viene vissuta interamente sul momento. Finora abbiamo parlato di memoria sonora ma, al contrario, come vi ponete rispetto alla scomparsa sonora? Nella vostra estetica o etica si è mai posta una questione simile?

ALMARE (Gabriele): L’audio-racconto traccia esattamente questa traiettoria di cui parlate. Da una parte, l’ossessione di salvaguardare, o forse una pretesa di salvaguardare, tutto, di un’archiviazione quasi totale. Proprio l’altro giorno mi trovavo a discutere del rapporto con la tradizione e del fatto che la tradizione sia sempre, in fondo, una reazione emotiva alla perdita. E non esiste tradizione senza perdita. Sono la stessa cosa: ogni volta che ci interfacciamo con una ricorrenza, ci interfacciamo con una perdita. D’altro canto, e questa è la fine del racconto, le cose devono essere lasciate andare, in modo che possano essere vissute e basta. La memoria non è archivio. Bisogna fare i conti con l’ineluttabile e anche, direi, con una certa gioia nell’accettare che le cose prendano la loro naturale vita e che, quindi, si perdano. Forse potremmo definire la tecnologia nei termini di una hauntologia, una creazione di fantasmi: se si vuole tenere tutto, si vivrà in un mondo di fantasmi. E questo per noi era un punto centrale verso il quale volevamo andare con il racconto.

ALMARE (Amos): Aggiungo una cosa, un po’ per chiudere il cerchio rispetto all’introduzione. Per far sì che i nostri personaggi lasciassero andare, in un certo modo, abbiamo dovuto lasciare andare noi prima di tutto. Per questo parlavamo di un’esperienza “sofferta”, nel senso che la cosa andava a toccare un elemento intimo, anche rispetto a un momento in cui il nostro collettivo ha incontrato quel sottile confine tra le necessità comuni e le necessità di ciascuno. L’individuo, nel senso positivo del termine, non è l’individuo che rifiuta gli altri o rifiuta di mettersi in discussione, ma è l’individuo che riconosce il suo percorso e impara anche a mettersi da parte. Solo così aiuta la collettività, nel momento in cui è in grado di lasciare andare. E questo è un percorso che si fa da soli e insieme allo stesso tempo.

ALMARE (Giulia): Dico un’ultima cosa che però mi sembra significativa rispetto anche alla scrittura collettiva. Mi pare di capire che anche voi vi scontriate con il lasciare andare, il domandarsi fino a dove accumulare e poi fino a che punto sintetizzare o rielaborare tutto. Prendiamo lo script del nostro film. Molto materiale che usiamo sono parole scritte da altri, come Goodman, Burroughs, Morselli. Credo che finora solo per caso non ci sia finita Acker stessa. Poi c’è stata una prima fase del lavoro che è stata una registrazione delle nostre conversazioni, oppure salvataggi più o meno autorizzati di mail, chat, e così via. Tutto quel materiale è finito in un modo o nell’altro all’interno del lavoro finale: là dentro ci sono le parole di tutti, il nostro cumulo. Qui poi potremmo aprire tutta una digressione sull’accumulo come ossessione e sulla sua matrice politica, ma forse non abbiamo tempo.

MONTAG: Forse no, ma grazie mille per tutto quello che avete detto. Una cosa finale?

ALMARE (Amos): Nessuno ha ancora detto la parola capitalismo.

ARTICOLO n. 93 / 2024