ARTICOLO n. 76 / 2022

ALLA RICERCA DI ME STESSO. UNA LETTERA DEL ’43

Cento anni di Raffaele La Capria

Pubblichiamo una lettera estratta da Tu, un secolo, che raccoglie alcuni degli scambi epistolari più significativi dell’esistenza di Raffaele La Capria, da oggi in libreria. Ringraziamo Mondadori per la disponibilità.

Non capita tutti i giorni, qui, di avere carta e penna disponibili, un tavolo, sia pure improvvisato, e una o due ore di raccoglimento. Forse perciò ho deciso di approfittare dell’occasione – o l’occasione lo ha deciso per me – per fare una piccola indagine alla ricerca di qualcuno: in quale altro modo potrei esprimermi quando mi riferisco a me stesso? 

Qualcuno che non so bene chi sia, nemmeno se è un uomo o un personaggio. Già, dovrei subito spiegare che cosa voglio dire, e non mi è facile, io ho una difficoltà ad esporre le mie idee che dipende principalmente, credo… Ma è meglio non fermarsi al primo ostacolo, non ho molto tempo davanti a me, presto suonerà la tromba. Allora diciamo che secondo me – e proprio perciò già comincio a dubitarne – un uomo sarebbe chi s’appoggia su certezze e valori che gli altri possono condividere, e un personaggio no, deve in ogni momento inventarsi chi è. Se l’uomo è tutto in quello che è e che fa, il personaggio non è mai tutto in quello che è e che fa. Così l’uomo è portato all’azione, e per un personaggio ogni piccola azione è un incubo, perché non sa mai bene cosa lo spinge ad agire. Per l’uomo gli altri sono reali e lo rendono reale. Il personaggio è sempre solo, gli altri sono per lui dei fantasmi, in mezzo a loro anche lui si sente irreale. Come me qui.

Ma non credo che esista qualcuno proprio tutto-uomo o proprio tutto-personaggio. Le proporzioni dovrebbero variare all’infinito. Comunque, io che cosa sono, uomo o personaggio? 

Mi vien da ridere. Non tanto se penso perché scrivo tutto questo, ma dove lo sto scrivendo. Dunque, io sto scrivendo sotto una tenda, nell’anno di grazia 1943, mentre infuria una orribile guerra alla quale partecipo, mio malgrado, come caporal maggiore. Sono arruolato in un battaglione di universitari, il 52° Battaglione d’Istruzione, da noi soprannominato Distruzione, perché ci distrugge giorno per giorno. La nostra zona è definita Zona d’Operazioni anche se è distante molte miglia dalle linee nemiche, perché in questa zona s’aspetta, è ritenuto imminente, un lancio di paracadutisti. Dopo una lunga marcia di addestramento per le polverose strade della pianura assolata, ecco, prima che cada la sera, un’ora di frescura e di riposo. I miei compagni sono in giro a bighellonare da un albero all’altro. Siamo attendati in un uliveto, e sotto gli alberi già si formano vari gruppi raccolti in chiacchiere, giochi di carte, scherzi. È naturale scrivere quello che sto scrivendo io, in una situazione del genere? Quanto inammissibilmente lontano dagli avvenimenti in corso, e ai quali pure partecipo, è questo mio scritto? Che senso ha scrivere questa roba quando il destino di milioni di uomini, e forse anche il mio, è un gioco da decidersi? Immagino già cosa direbbe Tullio se gettasse uno sguardo su questi fogli. Ma li terrò ben nascosti, o li metterò in una busta e li spedirò come una lettera, senza indirizzo. Io stesso, d’altronde, non saprei come giustificarmi. Posso solo dire che da troppi giorni viviamo isolati così, in attesa di un nemico che non viene.

Non viene il nemico dal cielo, non ci arrivano notizie se non confuse della guerra, non riceviamo più posta da casa. In questo completo isolamento, in questa vita totalmente involontaria che sono costretto a vivere, ho avuto paura di non esistere più, proprio di non esserci. A volte solo la cinghia della mitragliatrice che porto sulle spalle nelle stupide marce sfibranti, che mi segna la carne e mi indolenzisce le ossa, solo il sudore abbondante e animalesco della fatica inutile, mi danno la sensazione di esserci. Ma è un modo di essere che non mi basta e non mi compete. E dunque per rientrare in una sfera di mia competenza, che in qualche modo cioè mi riguarda, io mi sono rifugiato qui, sotto la tenda della fureria a scrivere. E proprio perché avverto l’enorme distanza tra quello che sto vivendo e quello che sto scrivendo, l’enorme distanza di ognuna di queste mie parole dalla Storia, provo un senso di soddisfazione che finalmente mi dà la certezza di esistere. Sì, il mondo è in fiamme, e io, insieme a tanti altri, potrei essere spezzato via dalla catastrofe. Ma stasera mi trovo qui, nell’incerta luce, a scrivere sul tavolo concessomi da furiere, della differenza, nientedimeno, tra uomo e personaggio, e di altre sciocchezze del genere che però mi competono più della cinghia della mitragliatrice.

Stasera non mi va di unirmi agli altri, non mi va di partecipare alle loro discussioni. E poi spesso nelle discussioni ho la peggio, mi mancano le qualità dialettiche, le convinzioni ferme. Se qualcuno mi contraddice, in cuor mio subito gli do ragione, anche se le mie parole gliela negano. Così è successo con Tullio. 

L’ho sempre stimato, Tullio, sin dagli anni del ginnasio, per la sua capacità di sistemare idee e concetti, mi piacciono quelli come lui che hanno delle opinioni e le sanno difendere. E proprio Tullio mi ha messo nello stato d’animo che ora mi fa scrivere. Abbiamo quasi litigato sul momento. Il tono aspro della sua voce mi è parso indiscreto, e la sua accusa, fatta apertamente davanti agli altri, mi ha colpito nel vivo. Ma, lo devo riconoscere, ha messo il dito sopra un vizio che ritenevo invisibile e che anche a me stesso era poco chiaro. Mi sono sentito scoperto, in pericolo: e lui mi parlava, sicuro di non sbagliarsi, come se tutto fosse scontato, ovvio. Se un altro, perfino il mio migliore amico, mi vede dentro, avverto sempre questo senso di pericolo, devo correre subito ai ripari… 

Certo avevo da tempo notato delle “instabilità”, per così dire, che a volte giocavano un forte ruolo nella mia vita, ma ad esse non avevo mai dato quell’importanza che gli do adesso, dopo la discussione avuta con Tullio. 

Pur intrattenendo con gli altri rapporti che chiunque giudicherebbe normali, io sento di non essere mai in quel naturale abbandono, che tali rapporti di solito comportano. Non c’è finzione nel mio modo di essere, e neppure penuria di affetti e mancanza di generosità. Anzi, mi sono prodigato sempre più del necessario proprio perché io solo sapevo che quell’altro me stesso intangibile doveva pur fare qualcosa per farsi perdonare la sua intangibilità, da me non voluta e spesso odiata. Questo, credo, Tullio deve averlo intuito. Una volta mi ha detto che con le idee io intrattengo gli stessi rapporti che con gli uomini, e quando mi sente parlare ha sempre la sensazione che per me le idee, anche quelle che rappresentano una sfida dell’umanità, siano qualcosa di estraneo. Anzi, ha precisato, è come se, pur comprendendone il valore e la portata, queste non fossero mai formative, per me, non avessero mai inciso dentro. Come avrà fatto a capirlo? 

Tra i miei compagni, a parte i discorsi sulla guerra e su tutto quello che incombe, si parla parecchio di queste idee. Anche qui, dopo il rancio, accovacciati sotto gli ulivi, si fanno certi discorsi come al GUF, che se li sentissero i superiori, da capitano in su – qualche tenente ci sta – rimarrebbero indignati e forse prenderebbero provvedimenti disciplinari. È già avvenuto. Si parla di Croce, di ciò che è fascismo e ciò che non lo è, ma soprattutto si parla di Marx, o contro Marx. Il linguaggio marxista è una lingua in cui ogni parola ha un significato preciso. Se si dice “borghese” o “piccolo borghese”, se si dice “intellettuale” o “classe operaia”, “sottoproletariato” o “sovrastruttura”, tutto questo vuol designare cose ben analizzate dal marxismo, perché il marxismo è una chiave che apre tutte le porte e spiega la condizione dell’uomo, il suo sfruttamento eccetera, è una dottrina totale. 

A volte mi sembra di essere convinto di questa idea marxista e convinto di questo linguaggio. Nella presente situazione, mentre siamo in una guerra che certamente perderemo, il marxismo è una buona spiegazione di tante cose e una buona speranza per cambiarle. Non esito a scriverlo, anche se, scoperto, sarei deferito al tribunale militare. Una tale eventualità non mi fa paura e anzi rende ancora più suggestiva per me l’idea marxista. Ma come mai, se voglio persuadere un altro di questa idea così suggestiva e rivoluzionaria, non trovo gli argomenti adatti, non resisto alla minima obiezione, e comincio io stesso a non crederci più? Ciò non accade per la mia difficoltà ad esprimermi, né per la mia immaturità di anni e di pensiero (a vent’anni poi non si dovrebbe essere tanto immaturi), ciò accade per una difficoltà più sostanziale, che è appunto il mio modo di avvicinarmi alle idee. Tullio dice che a volte siamo pronti a far nostra un’idea per il solo fatto di averla compresa fino in fondo, in tutte le sue possibilità. Lui dice che a me succede qualcosa di simile: il mio intelletto è abbastanza duttile per impadronirsi delle idee più disparate e contrastanti, ma poi di fronte ad esse resta imparziale ed astratto, dando a tutte contemporaneamente diritto di asilo. Si può immaginare il guazzabuglio che provoca questo mio atteggiamento? Perché non si dovrebbe accusarmi di superficialità e indifferenza?

Ma io mi ribello. Se non so procedere per una sola direzione col risultato di non imboccarne mai una, vuol dire che per me mantenere la contraddizione è l’unico modo, abbastanza sensato, di far lavorare il cervello. In uno stato di attivo scetticismo, non di superficialità e indifferenza, come dice lui. Lo stesso avviene quando parliamo di libri, di letteratura. 

Giorni fa, per colpa mia, sono stati perquisiti tutti gli zaini. Un’idea del colonnello. Durante la quotidiana marcia di addestramento ho tirato fuori un libriccino coi racconti di Čechov e mi sono messo a leggere camminando, come un prete col breviario. Da lontano il colonnello mi ha visto, ha fatto fermare la colonna, e ha improvvisato un discorso sulla propaganda disfattista e i libri sovversivi. Tullio s’è divertito, qualche giorno dopo, a rifare la scena: il colonnello che mi fissa mentre io marcio assorto nella lettura, e lo sguardo, lo sguardo del colonnello che esprime non solo l’ira e l’imminenza della punizione da infliggermi, ma anche l’oscura consapevolezza che con soldati come me la guerra non si potrà mai vincerla. Čechov, un russo! Sono stati allineati nel campo, davanti alle tende, prima del rancio, tutti gli zaini, e molti libri sono finiti in un falò, anche i romanzi più innocui, soprattutto quelli con la copertina rossa. Così ho perduto Moby Dick nella traduzione di Pavese, ma ho salvato La concezione materialistica della storia di Labriola, sfuggita non so perché, forse per l’aspetto serio e rispettabile dell’edizione Laterza. Lì dentro c’è, appunto, il Manifesto del Partito Comunista, che ancora passa di mano in mano… 

Quando, come dicevo, parlo con Tullio dei libri che leggo, sento che lui trova continui rapporti tra un libro e un altro, tra un libro e la realtà da cui è nato, quasi che ogni libro facesse parte di un concerto ben orchestrato che si chiama la Storia della Letteratura. Anche io a volte parlo in questi termini e mi do da fare in questa direzione, con osservazioni ben azzeccate, ma a dir la verità la musica del concerto non mi arriva. Ogni libro se ne sta, per me, in un mondo tutto suo, esclusivo e separato; è come se non appartenesse alla vita ma le facesse concorrenza, una forma che si aggiunge alle altre forme del mondo, insomma, e non per portare chiarezza, ma ambiguità e disordine. Così ogni libro è un messaggio chiuso in una bottiglia, proveniente da un mare dai confini incerti, e lascia labili tracce contraddittorie dentro di me, l’eco di domande senza risposta, il senso di un ordine nato dalla negazione di quello esistente. Mi guardo bene di dirlo a Tullio, perché anche in questo caso mi accuserebbe di superficialità, di cercare nei libri, a causa della mia inadeguatezza al mondo, un altro reale possibile, pur di non affrontare quello esistente. No, meglio non intaccare il suo lavoro di sistemazione, meglio non disturbare il suo concerto con le mie note dissonanti. E però sempre penso: Se dopo tutto, avesse ragione lui? 

Mi rendo conto che ero partito con un proposito, con quella distinzione tra l’uomo e il personaggio, e che adesso mi sto disperando in una serie di digressioni. Solo così sono capace di esprimermi. Forse invece di occuparmi di Tullio e delle sue idee contrapponendole alle mie, potrei utilizzare meglio il mio tempo scrivendo alla mia ragazza. 

Perché invece di scrivere per me non scrivo a lei? Perché perdo tempo così se, da un momento all’altro, in questo miserabile Deserto dei Tartari può risuonare lo squillo di tromba fatale? Ma la posta non funziona; e poi cosa dovrei scriverle? Qui tutti hanno una ragazza a cui scrivere, e tutti appena se ne presenta l’occasione vanno a donne, come e dove capita. Quando ci hanno portati coi camion in un paese vicino a ripulirci un po’ sotto le docce, mi sono trovato anch’io, dopo, con gli altri in una squallida stanza. C’era un vecchio, una vecchia e due bambini che giocavano in un angolo. Sulle sedie allineate lungo la parete, i miei compagni aspettavano il turno, scambiando qualche parola coi vecchi. C’era solo una tenda stesa nella camera, e dietro la tenda, sopra una branda, una specie di bambolona paffuta e rosea, con un fiocco di seta azzurro nei capelli. Senza neanche spogliarci, sentendo le chiacchiere di là, ci sdraiavamo accanto al suo corpo nudo. Sì, anch’io come loro. Non sono diverso da loro, ma di queste esperienze mi resta solo un senso di pena, e una mancanza. Ho scritto quel giorno una lettera d’amore alla mia ragazza, e mi pareva di recitare anche se non c’era finzione, perché si può recitare la sofferenza soffrendo davvero e recitare l’amore amando davvero, ma come si fa a superare quell’altra finzione della nostra natura che ci costringe a recitare?

Se ora penso alla mia ragazza mi sembra talmente lontana che nemmeno mi ricordo più com’è fatta. È una successione d’immagini staccate – un profilo, un’onda dei capelli, il suono di una parola – inseguite lungamente, fino a perdere qualsiasi rapporto con la persona da cui emanano: è l’inganno che devo interrompere tirando fuori dal portafogli la sua fotografia. La guardo e dico a me stesso, sì, è lei, è proprio lei, la mia ragazza. A volte, con la sua fotografia bene in vista davanti a me, le ho scritto di queste mie giornate forzose, e le ho scritto anche parole d’amore. Ma la distanza mi rende così, mi fa incerto dell’esistenza di lei come sono incerto tante volte della mia stessa esistenza. Se non avessi lei, le ho scritto, mi sembrerebbe di essere un piccolo pianeta sospeso in un suo giro solitario che si ripete sempre uguale: questo e cose simili le ho scritto, sempre più di rado. E forse ho esagerato a dirle che senza di lei sarei un piccolo pianeta solitario, perché lo sono in ogni caso, con lei o senza di lei. Ma lei non lo sa, e io ho continuato a scriverle perché non lo sapesse… 

Ieri è capitato il fatto che ha provocato la discussione con Tullio, e come conseguenza questo mio scritto. Io mi trovavo in uno stato di assenza. Mi accadde spesso di concedermi delle pause di riposo per appartarmi da tutto, anche da me stesso. Allora entro nello stato che chiamo di assenza, in cui non ci sono, letteralmente non ci sono e questo mi fa molto bene, perché quando per così dire “ritorno”, è come se avessi dormito e il sonno mi avesse ristorato. Ero in uno stato simile, sotto un uliveto, in contemplazione della mia stessa assenza. Ed ecco un mio compagno si avvicina di soppiatto e con uno di quegli scherzi un po’ goliardici che s’usano fin troppo tra noi, mi dà con la mano aperta un colpo sulle spalle, così forte da lasciarmi l’impronta. Un dolore bruciante, mi volto, e lui fugge gridando: «Sveglia! Adunata! Allarme! I paracadutisti!». Ho afferrato la baionetta, e la mia reazione è stata imprevedibile anche per me stesso: ho tentato di colpirlo, potevo ucciderlo! Quella sua improvvisa irruzione nel cerchio della mia assenza, non il dolore e la sorpresa, mi aveva sconvolto. 

Cos’è questa assenza?, mi sono domandato. Ma è inutile e forse impossibile descriverla. È una sorta di rapimento o piuttosto una fuga, fuori dalla nuvola di parole e di concetti che sempre ci avvolge, e fuori da ogni ricostruibile immagine o pensiero. Somiglia all’andare e venire dell’onda sulla spiaggia, all’allargarsi di cerchi d’acqua, al gioco delle nuvole difformi. Devo avere uno sguardo idiota quando piombo in queste assenze, e devo essere una bella tentazione per una piattata sulle spalle! Ma perché stavolta il “ritorno” è stato così furioso? Perché essere bruscamente riportato nell’attendamento sotto gli ulivi, tra i miei compagni del 52° Battaglione Distruzione, ha provocato quell’ira sconosciuta? 

Tullio mi si è buttato addosso per trattenermi, e tutto è finito lì. Ma poi quando mi sono calmato ha cominciato ad accusarmi, e davanti agli altri si è permesso di parlare di queste mie assenze: le ha definite il segno di un rifiuto, di una non accettazione della realtà e dunque della Storia. Lo avevo previsto. Da buon marxista lui classifica bene i comportamenti, cos’altro poteva rinfacciarmi? Ha detto che in me c’è una contrapposizione tra intelligenza e carattere. Io credo, così lui sostiene, che il carattere, il mio carattere, sia qualcosa di misterioso, immutabile, un dato fisso di natura, un destino, come il Fato per i Greci, e credo che la mia intelligenza, e dunque la mia volontà, non possano neppure scalfirlo. Ha detto che tutto ciò determina una frattura, rende impossibile quella composta unità che è, dovrebbe essere, la personalità di ogni uomo maturo e cosciente. Insomma, secondo lui, nonostante la mia intelligenza e cultura sono rimasto fermo in un mondo autosufficiente, infantile, immaginario. 

«E che ci sarebbe di male, se fosse così?» gli ho replicato, sapendo di non poter tenergli testa, e già dandogli ragione. 

«C’è di male che è sbagliato.»
«Perché?»
«Perché crea una falsa personalità.»
Dovevo pensare invece, che il carattere è solo un risultato, è formato dalla stratificazione continua di piccole azioni erroneamente ritenute impulsive o accidentali, che alla fine si condensano e si sommano in un malloppo duro come un metallo difficile a fondere. 

«Per esempio» ha detto, «prendi il tuo modo di reagire poco fa. Non è vero che non ti riconosci in quella tua azione?» 

«Certo, mi dispiace, ero fuori di me.» 

«Vedi, qui sta la frattura. O l’intelligenza e la volontà e la cultura modificano il carattere, o lo sottoporranno al tuo continuo giudizio negativo, e tu sarai il risultato della negazione di te stesso. Tutto questo, in altre parole, è reazionario e borghese.» 

«Ma che c’entra adesso la borghesia?» 

«Perché è tipico della borghesia analizzarsi, essere complicati come te, violenti e introversi come te. È tipico del reazionario credere a qualcosa di immobile come il Fato. È contro tutto ciò che cambia, contro la vita, contro l’azione per il riscatto dell’uomo da quello che sembra essere, e non è, il suo Fato; il Fato che l’opprime e lo sfrutta.»

«Ma scusa» gli ho replicato indispettito, «i Greci allora erano reazionari. Non hanno portato la civiltà al mondo? Non hanno cacciato via i Persiani? Loro credevano al Fato.» 

«Che c’entrano i Greci? Lo vedi che non sai ragionare? Tu non sei un greco. Sei solo un borghese dalla personalità labile, uno che non c’è, che non vuole prendersi la briga di esserci!»

Ecco, ho pensato io dopo questa discussione, Tullio sì che è un uomo! Ed è venuta fuori così la distinzione tra l’uomo e il personaggio, sulla quale ho cominciato a scrivere. Io sarei un personaggio, mi sembra abbastanza chiaro, ma un personaggio che sa che gli “uomini”, dopotutto, non stanno facendo una gran bella figura in questo momento. A volte sembrano irreali, e più dei personaggi. Il capitano, per esempio, è un fascista, eppure sa quello che deve fare quando occorre, ha delle convinzioni – sbagliate, ma le ha. È virile, è coraggioso, sa prendersi le responsabilità. Tutto questo appartiene agli uomini. E devo ammettere che quando pensavo all’ “uomo” ho pensato anche al capitano per contrapporlo a Tullio. Così esisterebbero due specie di uomini: a quale delle due alludevo, io che sto sempre in mezzo? Ma poi sarà vero che essere uomini è una qualità con caratteristiche sempre ammirevoli e distribuita in dosi così preponderanti? 

Solo un personaggio, Dio mio, può porsi delle domande così assurde. Anche questo mi fa soffrire. Ed è brutto soffrire di non soffrire delle stesse sofferenze di cui soffrono gli altri. Comunque ho almeno stabilito che essere “uomo” può apparire anche ridicolo nelle attuali circostanze. Dunque non voglio essere un personaggio, e neppure un uomo. Cosa allora? Si può provocare un mutamento, un cambiamento di rotta di tutti i nostri pensieri e modi di essere, solo con la volontà, come dice Tullio? O sarebbe necessaria invece qualche altra qualità dell’animo, richiesta dai tempi, e che a tutti per ora manca, agli uomini come ai personaggi? Sì, forse il piccolo duro pezzo di metallo che costituisce il fondo immutabile della mia natura sarà fra breve buttato dagli avvenimenti nel comune crogiuolo di questa immane catastrofe, e allora, forse, fonderà… 

Ecco, la tromba sta suonando! Devo correre!

Sarà il solito falso allarme che serve ad abituarci all’imminenza di quello vero. I nemici venuti dal cielo potrebbero già, nascosti dietro gli ulivi, puntare le armi contro le nostre tende. Se un colpo sparato senza intenzione di uccidere proprio me, uccidesse proprio me? Morirei come tanti miei compagni, come tanti miei coetanei, senza sapere nemmeno chi sono, senza sapere nemmeno perché.

Raffaele La Capria

© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano

ARTICOLO n. 93 / 2024