ARTICOLO n. 54 / 2023

ALLA RICERCA DEL PIACERE PERDUTO

Sesso, godimento, desiderio

Alcuni anni fa, in un periodo in cui ero ancora una balda e giovane studentessa universitaria, mi capitò di vedere un documentario spagnolo su sessualità ed eros in Giappone. Il documentario, che si intitolava L’Impero dei Senzasesso, raccontava come la terra nipponica detenesse già ai tempi (il 2013) il record mondiale di astinenza sessuale, con oltre il 40% della popolazione tra i 18 e i 35 anni che si dichiarava vergine e non interessato/a ad avere un incontro sessuale o una relazione. 

La cosa più curiosa, però, è che il Giappone era (ed è) al contempo il paese con un’industria sessuale altamente redditizia, posizionandosi tra i primi paesi al mondo esportatori di pornografia, bambole gonfiabili e addirittura androidi studiati ad hoc per soddisfare i piaceri sessuali degli astinenti. Infatti, mentre gli incontri sessuali di coppia continuano la loro inesorabile decrescita, lo stesso non si può dire dell’autoerotismo e del consumo di pornografia di ogni tipo. Gli onakura, ovvero negozi dedicati alla masturbazione (principalmente maschile) ed equipaggiati di cassette pornografiche, sex toys e addirittura dipendenti pagate per guardare,proliferano nelle città giapponesi ormai da anni. Sono ambienti scuri, isolati e solitari che i frequentatori apprezzano molto poiché, dicono, trovano l’idea di un rapporto sessuale o romantico estenuante e preferiscono appagare il proprio desiderio in solitaria senza bisogno di interfacciarsi con un essere umano. 

Se ai tempi in cui consumai quel documentario il Giappone mi sembrava un mondo distante, distopico e ai limiti dell’assurdo, negli ultimi anni mi è capitato di ripensare spesso alle storie degli hikikomori (“i reclusi”), dei parasaito shinguru (“i single parassiti”, ovvero persone che vivono con i genitori oltre i vent’anni) e, in generale, alla sekkusu shinai shokogun (“sindrome del celibato”) giapponese, cominciando a scorgere i sintomi di queste tendenze anche nelle società occidentali, sebbene naturalmente con alcune alterazioni. Ciò che mi risulta particolarmente intrigante è la trasversalità di un’astinenza sessuale che sembra trovare il suo nucleo non tanto in un completo abbandono del piacere, quanto più in una forte crisi delle relazioni umane.

In effetti, di recessione sessuale si parla sempre più spesso anche da noi, e se ne parla soprattutto nei termini per cui essa pare affliggere specialmente le generazioni più giovani. Già da prima della crisi sanitaria del Covid-19, nel 2018, la rivista Atlantic battezzava questo fenomeno pubblicando un articolo dal titolo Perché le persone giovani fanno così poco sesso?, il quale riportava alcuni dati rilevanti sulla vita sessuale della cosiddetta Gen Z e dei Millennial che, secondo numerose ricerche condotte in diversi paesi occidentali e orientali, stava subendo un notevole calo sia nella quantità che nella qualità. Anche in Italia il fenomeno è stato indagato soprattutto dopo la pandemia e, nel 2020, uno studio dell’Università di Firenze e di Catania ha mostrato come oltre la metà dei giovani si dichiarasse non appagato sessualmente. 

Ma da dove arriva il rifiuto del sesso in una società ormai sempre più pornificata in cui la rappresentazione sessuale è diventata parte integrante della nostra cultura e quotidianità? A questa domanda e a tutte le sue contraddizioni è dedicato l’ultimo saggio di Stella Pulpo, intitolato C’era una volta il sesso: Divagazioni ombelicali per ritrovare il piacere perduto in uscita in questi giorni con Feltrinelli Urra. Nel volume, l’autrice – già nota al pubblico femminile millennial per il suo storico blog “Memorie di una Vagina” – indaga con ironia e rigorosità il fenomeno del calo del desiderio sessuale e, di conseguenza, del nostro piacere. Mettendo a nudo il suo trascorso personale prima come donna, poi come femminista e infine come madre, Pulpo fa dialogare una moltitudine di fenomeni che costellano il mondo della sessualità sollevando una serie di riflessioni importanti sul legame tra la recessione sessuale e un’angoscia esistenziale sempre più pervasiva. Attraverso un’analisi leggera ma mai superficiale, l’autrice raccoglie diverse ricerche e punti di vista che la portano alla conclusione che le cause della recessione sessuale vadano ricercate nel sistema capitalista (basato sui concetti di competizione e individualismo) e l’incertezza del futuro (nero, precario e imprevedibile), i quali sviluppano delle conseguenze mortali sulla nostra libido e sul nostro piacere. Del resto, già nel 1955 il sociologo Herbert Marcuse scriveva nel suo Eros e civiltà che una società votata al lavoro, schiava dei ritmi capitalisti e vittima della repressione erotica sarebbe stata destinata all’infelicità e al disagio psicosociale. Che una società stressata, arrabbiata e impaurita faccia fatica a ricavarsi del tempo per pensare al piacere non è una novità (tanto che l’etnografa Kristen Ghodsee addirittura sostenne attraverso uno studio antropologico del 1990 che i sistemi socialisti e improntati alla collettività migliorassero l’appagamento sessuale e la qualità dell’intimità). 

E in effetti, chi riesce a dirsi oggi davvero immune a stati mentali deleteri per la salute come l’ansia, la depressione, lo stress, il senso di solitudine e di abbandono e la stanchezza? In questi ultimi anni, duri e tesi, abbiamo normalizzato così tanto il malessere psicologico che sembriamo esserci ormai arresi a un’esistenza in cui il piacere, in tutte le sue forme, viene relegata all’ultimo posto nella lista delle nostre priorità. Il tempo e lo spazio dedicati all’intimità non solo si sono assottigliati, ma hanno preso sempre più la forma dello smarrimento, della mancanza di interesse vero l’Altro, del mito della performance e soprattutto della criminalizzazione del piacere come attività non produttiva. In altre parole, le strutture sociali hanno contribuito a modellare e orientare il nostro desiderio fino a ridurlo ai suoi minimi storici, mantenendolo vivo unicamente all’interno di quelle attività che vengono ritenute proficue per il sostenimento dello status quo.

È questo il caso, ad esempio, della fertilità, del lavoro domestico e riproduttivo, e del desiderio maschile, concetti ancora profondamente radicati ai dogmi patriarcali e alla divisione dei ruoli sociali secondo regole binarie. Come bene spiega l’approccio femminista marxista, in Italia rappresentata dai preziosi contributi di Silvia Federici, non è infatti possibile analizzare le contraddizioni del sistema capitalista senza coglierne l’intersezione con il sistema patriarcale, poiché il capitalismo non solo è compatibile con lo sfruttamento e la produzione di gerarchie, ma ne è anche il principale produttore e fruitore. Proprio per questa ragione la disuguaglianza di genere, e tutti i costrutti culturali che essa si porta con sé, diventano una preziosa fonte di sussistenza per il sistema dominante. E anche per questo il piacere può esistere solo in una formula mercificata, commerciale e sempre più relegata all’ambito individuale. 

In questo senso, anche Stella Pulpo ragiona su come gli stereotipi di genere, i tabù e in generale la “maleducazione sessuale” siano complici di un sistema che finisce per sopprimere il piacere e il desiderio a favore di un’insoddisfazione vitale. Ed è qui che temi caldissimi come il consenso, la comunicazione, l’educazione al piacere, il poliamore e la fluidità relazionale emergono sottoforma di argomenti di cui non possiamo più ignorare l’esistenza, pena fustigarci con vite preimpostate e prescelte per noi, fatte di regole che non funzionano più e che limitano il raggiungimento del nostro piacere. Il calo del desiderio sessuale ed erotico, allora, simbolizza più il guasto di un sistema economico, politico e sociale di matrice capitalista-patriarcale che ci inibisce, ci intristisce, ci affatica e ci dissolve. In un mondo ormai pervaso di coach motivazionali, mindfulness e manuali che suggeriscono di pianificare i nostri momenti di piacere come se fossero appuntamenti di lavoro, Pulpo suggerisce l’adozione di una “resistenza erotica” che sfidi il sistema e, parafrasando Elisa Cuter, ci aiuti a ripartire dal desiderio. 

Non è molto lontana la sua posizione da quella di adrienne maree brown, che nel suo libro Pleasure Activism: La politica dello stare bene, pubblicato nell’estate dello scorso anno, immagina una militanza e una resistenza che mettano al centro proprio il concetto del piacere, inteso in senso ampio come rivendicazione della felicità, della soddisfazione, dell’umorismo, delle arti, e ovviamente anche del sesso. L’attivismo del piacere, secondo maree brown, attinge alla felicità e allo stare bene come una nuova forma di produzione di giustizia, liberazione e guarigione, mantenendo lo sradicamento dell’oppressione come l’obiettivo finale a cui ogni lotta dovrebbe aspirare. «Quando sono felice, ne beneficia il mondo», scrive l’autrice, ricordandoci che anche lo spazio e il tempo per il piacere fine a se stesso sono un diritto, e che, in assenza del godimento e della gioia necessari per scegliere di vivere a pieno la nostra vita, forse nemmeno le disuguaglianze, le ingiustizie e i sistemi oppressivi possono venire davvero sconfitti e radicalmente sovvertiti. 

Ci troviamo in un punto morto della storia in cui l’individualismo e l’egoismo che caratterizzano le società capitaliste del nuovo millennio stanno creando fratture difficilmente sanabili. Forse, però, se ricominciassimo a mettere a fuoco le nostre vite attraverso la lente del desiderio con una maggiore consapevolezza di noi stessi e dei nostri bisogni, si potrebbero finalmente creare nuovi spazi di riflessione politica e nuove utopie a cui aspirare.

Anche perché, se i nostri corpi nascono ed esistono per poter provare piacere, non è alquanto contro natura vivere in un sistema che punta a eliminare ogni fonte di benessere? O è forse preferibile un mondo fatto di onakura in cui rinchiuderci in solitaria per evadere dai dolori del mondo? Io, personalmente, preferisco credere nella resistenza erotica. La lotta per la liberazione del piacere non è più rimandabile.

ARTICOLO n. 93 / 2024