ARTICOLO n. 53 / 2021
Di Joan Didion
ALICIA E LA STAMPA UNDERGROUND
TRADUZIONE DI SARA SULLAM
Gli unici giornali americani che non mi lasciano preda della profonda convinzione fisica che mi sia stato tolto l’ossigeno dalla materia grigia, con tutta probabilità da un telegramma della Associated Press, sono il Wall Street Journal, il Free Press di Los Angeles, l’Open City, sempre di Los Angeles, e l’East Village Other. Non ve lo dico per apparire come una persona stramba, eccentrica, perversa ed eclettica, per non dire all’ultima moda in tutti i suoi gusti; qui si tratta di qualcosa di più ottundente e curioso, ossia della nostra incapacità di parlarci in modo diretto, dell’incapacità dei giornali americani di «andare al punto.» Il Wall Street Journal mi parla in modo diretto (poco importa qui che molto di quanto dice abbia per me uno scarsissimo interesse), e così anche la stampa underground.
Free Press, East Village Other, Berkeley Barb, tutte le altre testate formato tabloid che riflettono gli interessi dei giovani e di chi non ha un’affiliazione hanno una virtù particolare: sono privi di quelle posture tipiche della stampa convenzionale, per lo più fondate su una falsa obiettività. Non fraintendetemi: tengo in grande conto l’obiettività, ma non riesco proprio a capire come possa essere conseguita se il lettore non capisce la parzialità di chi scrive. Se si taccia di esserne esente, lo scrittore conferisce all’intera faccenda una mendacità che non ha mai infettato il Wall Street Journal e che ancora non infetta la stampa underground. Un autore di stampa underground dice se disapprova qualcosa, spesso in luogo del chi, cosa, dove, quando, come.
Ovviamente i giornali underground non hanno nulla di particolarmente underground. New York, a sud della Trentaquattresima Strada, è tappezzata di East Village Other; a Los Angeles, durante la pausa pranzo sulla Strip, i contabili prendono una copia del Free Press. Replicare che si tratta di testate amatoriali e scritte male (lo sono), stupide (lo sono), noiose (non lo sono), non sufficientemente inibite dall’informazione finisce per essere un luogo comune.
Di fatto, il contenuto di un giornale underground è assai scadente. La notizia di una marcia per la pace o della defezione di un gruppo rock a favore delle forze dello sfruttamento (il gruppo ha fatto uscire un disco, dicono, o ha accettato un ingaggio per suonare al Cheetah), consigli di Patricia Maginnis su che cosa dire al medico specializzando dell’accettazione se si comincia a perdere sangue dopo un aborto in Messico («Sentitevi completamente libere di dire che Patricia Maginnis e/o Rowena Gurner vi hanno aiutato ad abortire. Siete pregate di non incriminare nessun altro. Noi stiamo cercando di farci arrestare. Altri no»), riflessioni di uno spacciatore quindicenne («Devi credere allo spaccio come stile di vita, altrimenti non ce la farai»), avvertenze che la velocità uccide: un numero di Free Press è pressoché identico ai cinque successivi e, per chiunque segua da lontano i vari scismi tra tossicodipendenti e guerriglieri rivoluzionari, non si distingue dall’East Village Other, dal Barb, da Fifth Estate, o dal Free Press di Washington. Non ho mai letto nulla di utile su un giornale underground.
Ma pensare che quei giornali vengano letti per i fatti significa non comprenderne l’interesse. Il loro genio consiste nel parlare in modo diretto ai lettori. Partono dal presupposto che il lettore sia un amico, che sia turbato da qualcosa, e che capirà le cose se gliele si espone in modo chiaro; questo presupposto di un linguaggio comune, di un’etica condivisa conferisce ai quei resoconti una considerevole forza stilistica. Di recente Free Press ha pubblicato un’indagine sull’università di Ann Arbor firmata da una lettrice di nome Alicia, la quale, in tre righe che sfiorano la perfezione di un haiku, dice tutto quel che c’è da dire su una comunità universitaria: «I professori e le loro mogli sono ex-Beatniks (Berkeley, classe ’57), vanno alle marce per la pace, e portano narcisi a U Thant. Certi studenti credono ancora a Timothy Leary e a Kahlil Gibran. Alcuni, tra i loro genitori, credono ancora al Rapporto Kinsey.»
Questi giornali ignorano il codice delle testate tradizionali, dicono quello che pensano. Sono stridenti, sfacciati, ma non suscitano irritazione; hanno i difetti di un amico, non di un monolite. (Monolite, naturalmente, è una delle parole preferite della stampa underground, una delle poche di quattro sillabe). Il loro punto di vista è chiaro anche al lettore più ottuso. Nella migliore stampa tradizionale persistono tacite abitudini, e il fatto che restino tacite, che non vengano ammesse, crea una barriera tra il lettore e la pagina tanto quanto il gas di palude. Il New York Times mi suscita solo sgradevoli aggressioni da contadina, mi fa sentire come la figlia scalza del mercante in fiera in Carousel, che guarda i bambini Snow che corrono alla cena della domenica con McGeorge Bundy, Reinhold Niebuhr, e il dottor Howard Rusk. La cornucopia esonda. La Croce d’Oro risplende. La figlia del mercante in fiera sogna l’anarchia e non si fida dei bambini Snow, quando le dicono che la sera prima era buio. Sotto il livello del New York o del Los Angeles Times, il problema non è tanto fidarsi della notizia, quanto trovarla; spesso sembra che una scimmia abbia preso l’assurda storia per com’è uscita dalla telescrivente e ci abbia buttato dentro un servizio di un altro giornale da una parte, un comunicato stampa dall’altra.
L’estate dei miei diciassette anni lavorai per un giornale nel quale il culmine dello sforzo quotidiano consisteva nel ritagliare e riscrivere il giornale dell’opposizione («Controlla che non sia una trappola,» mi consigliarono il primo giorno); ho l’impressione che questo genere di cose costituisca ancora un florido ramo d’industria locale: Il consiglio dei supervisori della contea elogia gli agenti immobiliari del comparto occidentale per il progetto di abbattimento degli slums, e la costruzione di un albergo Howard Johnson’s. Debuttanti attente al mondo della beneficenza esaminano un macchinario di recente acquisizione per la cura del cancro terminale. Cara Abby. Specchio della tua mente. La lingua penzola, la realtà retrocede. «Seminario, seminario, qui ci vuole un dizionario,» si legge a pagina 35. «PADUCAH, KY. (AP) – «Quando Kay Fowler ha chiesto alla sua classe della scuola domenicale di descrivere un seminario, un ragazzino se ne è venuto fuori con: “È dove seppelliscono le persone”». Se me lo dici a pagina 35, non ti crederò a pagina 1.
Le scimmie ai piani inferiori, il linguaggio in codice a quelli superiori. Quanto alle convenzioni della nostra stampa, ci riteniamo «ben informati» se conosciamo «la vera storia,» ossia quella che non si trova sui giornali. Ormai ci aspettiamo che la stampa rifletta l’etica ufficiale, che si comporti in modo «responsabile.» I giornalisti più ammirati non sono più avversari, ma confidenti, partecipanti; l’ideale è dare consigli ai presidenti, cenare con Walter Reuther e Henry Ford, ballare con la figlia di quest’ultimo al Le Club. Probabilmente Alicia non conosce nulla al di fuori di Ann Arbor. Ma su quello mi dice tutto quello che sa.
1968
— Il testo di Joan Didion è ripreso dalla sua nuova raccolta di articoli Let Me Tell You What I Mean.
© 2021 by Joan Didion