ARTICOLO n. 13 / 2023

IL MITO DELL’ABITO BIANCO

Consultando gli account social di riviste e quotidiani, mi capita con sempre maggiore frequenza di imbattermi in notizie che in realtà non lo sono affatto. Mi riferisco per esempio alla storia, letta poco tempo fa, della giovane studente incinta che ha discusso la tesi qualche minuto prima che iniziassero le contrazioni, oppure quella, risalente a qualche tempo prima, di un ragazzo che al termine della sessione di laurea ha chiesto alla fidanzata, che era tra il pubblico, di sposarlo. Ancora più recente è la notizia del calciatore bielorusso che, d’accordo con la squadra, ha invitato la fidanzata in campo per inchinarsi di fronte a lei e farle la proposta di matrimonio. 

Come dicevo, si tratta di notizie che di fatto non lo sono, perché più che offrire un vero contenuto informativo contribuiscono a veicolare un preciso messaggio intorno alla maternità e al matrimonio; in particolare l’idea che, per una donna, siano due eventi imprescindibili, strettamente correlati alla felicità e all’autorealizzazione personale. Non a caso, entrambe le notizie mettevano al centro della narrazione più gli eventi che le protagoniste: della giovane neolaureata o della ragazza del calciatore – di cui neanche sappiamo il nome – conosciamo solo la gioia dopo il parto, non quella per il titolo ottenuto o la sorpresa per il matrimonio in arrivo.

Maternità e matrimonio, di cui abbiamo parlato in un altro articolo, sono due facce della stessa medaglia la cui narrazione mitizzata contribuisce a mantenerne inalterato il potere. Che i due eventi abbiano molteplici punti in contatto è testimoniato anche sul piano etimologico; come ricorda Vera Gheno in un articolo apparso sul sitodell’Accademia della Crusca, il termine matrimonio si compone di due parole – mater e monium – che rimandano alla finalità generativa dell’unione. Scrive la sociolinguista: «l’etimologia stessa fa riferimento al “compito di madre” più che a quello di moglie, ritenendo quasi che la completa realizzazione dell’unione tra un uomo e una donna avvenga con l’atto della procreazione, con il divenire madre della donna che genera, all’interno del vincolo matrimoniale, i figli legittimi». Storicamente, tutto questo ha senso se consideriamo che il matrimonio non nasce con una finalità sentimentale, così come siamo abituati a intenderlo oggi, ma per lungo tempo è servito a suggellare accordi economici, sociali o politici tra famiglie e casate. Celebrare eventi di questo tipo era appannaggio delle classi sociali più abbienti ed è per questo che il rito avveniva con un certo sfarzo. Le spose indossavano abiti sontuosi realizzati in tessuti pregiati, il cui scopo non era tanto esaltarne la bellezza quanto esibire alla famiglia dello sposo le condizioni economiche di quella di provenienza. 

Il colore bianco, che oggi ci sembra scontato, si è imposto solo in epoca recente e anche in questo caso la questione estetica era accessoria. La scelta del colore aveva una valenza simbolica: doveva dimostrare che la sposa era talmente benestante da potersi permettere un abito realizzato appositamente per l’evento, in una tonalità così delicata che non si sarebbe potuto indossare per altri scopi se non per quel giorno “speciale”. Inoltre doveva rimandare, sempre su un piano allegorico, alle doti di verginità e purezza, indispensabili per garantire quei figli legittimi di cui scriveva Gheno. In realtà, dopo aver fatto la sua apparizione nel sedicesimo secolo alle nozze di Maria Stuart con l’erede al trono di Francia, l’abito bianco venne considerato a lungo presagio di sventura a causa della morte prematura del sovrano, avvenuta prima ancora di poter generare un erede. È solo nel 1840 che ricompare, quando la Regina Vittoria sposò il principe Alberto di Sassonia, cominciando a fare tendenza tra le nobili e le giovani dell’alta borghesia.

Se sfoglio l’album di famiglia, scopro che la prima a indossare l’abito bianco è stata mia mamma, all’inizio degli anni Settanta. Chiacchierando con lei, ho saputo che lo aveva acquistato pochi giorni prima delle nozze in un negozio della mia città, ormai chiuso da tempo, che disponeva di una piccola selezione pensata per le future spose. Non era un capo sartoriale o su misura, come oggi si trovano nelle boutique specializzate, che hanno per questo costi elevati e lunghi tempi di realizzazione. Sua mamma, che si è sposata intorno alla metà degli Anni Quaranta, indossava un normale tailleur scuro. Nell’unica immagine conservata nell’album, sopravvissuta al tempo, tiene in mano un piccolo bouquet, non ci sono altri scatti che testimonino il servizio fotografico esclusivo o il grande ricevimento semplicemente perché non ci sono stati. Non ho più la possibilità di chiederglielo, ma probabilmente indossava l’“abito buono”, quello da usare con cura nei giorni di festa; dopo il rito non c’è stato alcun evento ma solo un pranzo insieme ai suoi genitori e a quelli di mio nonno. Per una famiglia contadina, come del resto era quella da cui proveniva, sarebbe stato impossibile disporre di un capo pensato per l’occasione, di un colore praticamente inutilizzabile in qualsiasi altro contesto, o di spendere grosse somme di denaro per l’evento. Eppure, oggi l’abito è l’oggetto irrinunciabile della cerimonia e le future spose sono disposte a investire una cifra importante arrivando anche a indebitarsi per poter disporre di un budget in grado di garantire un’organizzazione sfarzosa. Questa tendenza, in atto da diverso tempo, si nutre di continui richiami alle favole delle principesse Disney o alle vicende, vere, di Elisabetta di Baviera, Diana Spencer o Grace Kelly, tutte nobili ma con un’anima pop in grado di mitizzarle rendendole appetibili anche agli occhi della gente comune. Un aspetto da non trascurare, considerando che l’attuale narrazione pone molta enfasi sull’idea che un matrimonio sfarzoso saprà trasportare la futura sposa al centro di una favola che, come il ballo di Cenerentola, è destinata a svanire nel giro di qualche ora.

La tradizione dell’abito bianco e della festa in grande stile dovrebbe farci riflettere su quanta enfasi poniamo nei confronti dell’evento e sulle motivazioni che lo rendono imprescindibile, soprattutto per le ragazze. Queste domande diventano interessanti se consideriamo che, secondo Istat, in Italia ci si sposa sempre meno. Prima della pandemia, che ha per ovvie ragioni frenato gli eventi, se ne sono celebrati poco più di 184mila a fronte di 97mila separazioni. Il trend è in calo, eppure, o forse proprio per questo, sembra che il settore del wedding resista alla crisi. Si continua a produrre e stampare magazine e riviste monotematiche per guidare le donne alla scelta del vestito perfetto e a organizzare, nelle grandi città, fiere ed esposizioni in cui scoprire le ultime tendenze in fatto di moda. In TV spopolano programmi come “Abito da sposa cercasi”, “Il castello delle cerimonie” o “Quattro matrimoni”, tutti incentrati sulle vicende delle future spose alle prese con l’outfit, l’organizzazione della cerimonia, la scelta della location più ricercata per far invidia alle amiche. Produzioni di questo tipo contribuiscono a mantenere lo stereotipo secondo cui, per le donne, sposarsi in abito bianco rappresenti il coronamento di un desiderio a cui vengono educate fin da bambine. Tutto ciò, ancora una volta, viene confermato dai dati: secondo un’indagine realizzata da Istat sull’influenza degli stereotipi nel mantenimento di una certa immagine della violenza di genere, il 37% del campione intervistato ritiene che sposarsi sia il desiderio di ogni donna. Quando però si chiede cosa sognino gli uomini, le cose cambiano: per più del 32% della popolazione italiana tra i 18 e i 74 anni, senza grosse distinzioni di genere, il successo sul lavoro è la loro principale ambizione ed è pertanto considerato normale che solo loro si impegnino attivamente per raggiungerlo.

Le opinioni raccolte dall’inchiesta offrono un punto di vista interessante che può aiutarci a capire perché la pressione sociale nei confronti del matrimonio non ricada in egual misura su uomini e donne. Intorno ai trent’anni – che per la statistica è l’età media in cui ci si sposa – gli uomini sono impegnati a progettare il proprio futuro, a posizionarsi sul mercato lavorativo e a fare carriera. Diversa è invece la condizione delle donne. Almalaurea ha recentemente confermato un dato significativo: le alunne compiono percorsi universitari brillanti, generalmente più rapidi di quelli dei compagni, tuttavia non ricevono le medesime opportunità di impiego e a un anno dalla laurea faticano molto più dei colleghi per essere assunte. Per molte, l’impatto col mondo del lavoro influisce negativamente sulle aspirazioni professionali. Non riuscire a trovare un impiego o imbattersi solo in contratti precari, scarsamente retribuiti, è sicuramente un fattore che le porta più facilmente a rinunciare alla carriera e ripiegare sulla famiglia, ambito in cui le soddisfazioni personali sembrano quasi garantite. Così, se per il genere maschile sposarsi è un’opzione, un evento auspicabile ma non indispensabile, per le donne diventa il luogo entro cui realizzarsi, dopo aver provato a fatica una realizzazione al di fuori delle mura domestiche.

Anche per me il matrimonio ha rappresentato il tentativo di sperimentarmi, scegliendo una strada che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto procurarmi un po’ di soddisfazione personale in un periodo in cui trovare un impiego affine ai miei studi sembrava difficile, oltre che sconsigliato dalla gran parte delle persone con cui mi confrontavo – che insistevano nel ricordarmi che prima o poi vi avrei rinunciato spontaneamente, per mettere su famiglia. Ci è voluto tempo per capire che, in realtà, sposarmi non era un mio desiderio ma rappresentava solo il tentativo di aderire a un mandato che molte donne, dentro e fuori il mio contesto familiare, avevano perseguito a loro volta prima di me. Nel suo articolo, Giulia Paganelli scrive che quello della principessa è uno stereotipo i cui effetti permangono inalterati e rivestono il corpo culturale delle donne. Educate all’idea del principe azzurro che verrà a salvarci e al lieto fine del “…e vissero felici e contenti”, il matrimonio si inserisce in questa narrazione finendo per diventare un modello che sembra garantire alle donne un certo appagamento personale e l’idea di essere, almeno per un giorno, protagoniste di una favola che non ci procurerà insoddisfazione o tristezza. Combattere gli stereotipi è anzitutto un’operazione di decostruzione dei miti che, un po’ come quello platonico della caverna citato da Paganelli nel suo pezzo, contribuiscono a mantenerci, immobili e silenziose, davanti a un teatro di immagini inconsistenti. Il fatto che siano le donne a sperimentare con più frequenza la pressione sociale a sposarsi e metter su famiglia ci mostra perché sia importante continuare a compiere quest’operazione. L’intento non è quello di denigrare il rito in sé quanto piuttosto rivelarne i meccanismi impliciti. Il rischio, in cui tra l’altro io per prima mi sono imbattuta, è quello di vedere il matrimonio come un palliativo, qualcosa in grado di colmare tutti i bisogni di realizzazione che sul piano sociale o lavorativo sembrano difficili da soddisfare, soprattutto per una donna.

Negli Anni Quaranta, lo psicologo Abraham Maslow si è occupato di bisogni personali e delle strategie che ogni essere vivente attiva per appagarli. Per rappresentare la molteplicità delle necessità, materiali e immateriali, che ci caratterizzano, Maslow ha utilizzato l’immagine della piramide. Lo schema piramidale permette di cogliere anche visivamente il fatto che i bisogni abbiano radici e collocazioni differenti e pertanto anche meccanismi di appagamento diversi. Per questo, lo psicologo sostiene che sia impossibile soddisfare i bisogni di autorealizzazione e autostima, che hanno a che fare con le nostre aspirazioni, con un’azione come il matrimonio, che appaga invece il bisogno di appartenenza, ossia la necessità di sentirci amati e al sicuro all’interno di relazioni affettive e amicali.Ci possono essere un’infinità di motivi per sposarsi ma è senza dubbio importante riconoscere quando ciò sia motivato da ragioni che non sono ascrivibili a una vera scelta. Impegnarsi per decostruire i miti intorno all’abito bianco e alla favola delle nozze perfette consentono di ripulire il discorso da una narrazione che trasforma il matrimonio in un momento di soddisfazione illusoria, aiutandoci a vederlo per quello che è: una tappa non obbligatoria della vita e proprio per questo sensata, che può contribuire comporre la nostra identità senza esaurirla in essa.

ARTICOLO n. 93 / 2024