ARTICOLO n. 85 / 2022
IL MITO DELLA MATERNITÀ
Da bambina ero solita passare le estati nel paese di origine della mia famiglia. Mi piaceva frequentare la casa di una conoscente di nonna: lei chiacchierava con la padrona di casa mentre io vagavo per le stanze, osservando la grande mole di oggetti che all’epoca consideravo insoliti, probabilmente perché erano molto diversi da quelli che ritrovavo nella mia abitazione. Quello che catturava maggiormente la mia attenzione era una medaglia: il ciondolo era sostenuto da una fascia di tessuto su cui erano apposti dei fiocchetti in metallo. Quella dei miei ricordi ne possedeva otto, anche se la loro distribuzione irregolare faceva intuire che uno si fosse staccato nel corso del tempo. Di ritorno da uno di quei pomeriggi, la nonna mi aveva spiegato la storia che si celava dietro la medaglia. Era un riconoscimento che veniva conferito in epoca fascista alle famiglie con più di sette figli. All’epoca – erano gli anni Novanta – mi sembrava impossibile credere potessero esserci donne con così tanti pargoli. L’ambiente familiare intorno a me era molto diverso: la maggior parte delle amiche proveniva da famiglie separate; nella mia, mamma aveva solo un fratello che non vedevo mai perché abitava altrove, papà era figlio unico, in casa, oltre a mia sorella adolescente, l’unica bambina ero io. Mi sembrava strano, inoltre, che mettere al mondo bambini comportasse ricevere un riconoscimento. A dirla tutta mi sembra strano ancora oggi, eppure è proprio su questo livello che si è mantenuta la comunicazione attorno a eventi come il Fertility day o gli Stati generali della natalità. Entrambe le manifestazioni sottolineano i rischi dell’“inverno demografico” – quella condizione in cui l’età media della popolazione si alza mentre diminuiscono le nascite – primo tra tutti la crisi dell’intero sistema di welfare. Il Piano nazionale per la fertilità, documento del 2015 alla base del Fertility day, attribuisce alle donne la responsabilità dell’abbassamento del tasso di fertilità in particolare da quando «sono andati in crisi i modelli di identificazione tradizionali ed il maggiore impegno nel campo lavorativo e nel raggiungimento di una autonomia ed autosufficienza ha portato ad un aumento dei conflitti tra queste tendenze e quelle rivolte alla maternità». Le donne diventano il capro espiatorio perfetto e i dati vengono usati come una clava per colpire la loro capacità di autodeterminazione, semplificando il discorso e omettendo tutte quelle variabili che potrebbero contribuire a spiegare perché, in un paese come il nostro, si mettano al mondo meno figli.
Effettivamente, le famiglie numerose si sono ridotte drasticamente negli ultimi sessant’anni. Secondo un report Istat, se le donne nate nel 1933 hanno partorito, in media, 2,3 volte, le loro nipoti nate nel 1977 lo hanno fatto 1,4 volte. La flessione del tasso di fecondità è cominciata nell’immediato dopoguerra, e oggi il dato si assesta a 1,25. Ciò significa che la maggior parte delle donne si ferma alla prima gravidanza; crescono inoltre i numeri di coloro che non mettono al mondo alcun figlio.
Da una parte, questi dati, impensabili una manciata di anni fa, lasciano intendere un cambiamento nei confronti della maternità, che non costituisce più una tappa obbligata nella vita delle donne. L’accesso alla contraccezione ha infatti svincolato la riproduzione dalla sessualità, dando la possibilità alla donna di decidere se e quando diventare madre.
Ciò nonostante, è importante soffermarsi ancora sulle questioni strutturali e culturali che condizionano le scelte personali perché lo scenario è, in realtà, ben più complesso e i numeri da soli non bastano a chiarirlo.
Da un punto di vista culturale, il mito della maternità continua a resistere nonostante sia in atto un tentativo di messa in discussione. Il movimento Childfree è sicuramente la voce che, più di tutte, cerca di scardinare tale concetto. Nato in America sul finire degli anni Novanta, il movimento rivendica il diritto a non mettere al mondo figli e combatte lo stigma che ancora colpisce chi si rifiuta di farlo. La scrittrice e psicoterapeuta Christen Reighter è tra le principali autrici che sostengono le posizioni Childfree. Invitata al TedX in Colorado nel 2017, ha raccontato il suo lento cammino di consapevolezza unito ai numerosi tentativi, da parte dei suoi interlocutori, di invalidare la sua posizione, tutti incentrati sull’idea che una donna senza figli sia sempre una donna “a metà”, meno femminile, meno realizzata e pertanto più infelice. A partire dagli anni Duemila, in America si sono moltiplicati i libri che difendono la battaglia delle persone childfree; in Italia però il movimento è stato recepito con molta diffidenza e sono ancora poche le donne che accolgono e difendono questa posizione. A tal proposito è importante ricordare l’Associazione Lunàdigas, che dal 2015 ha dato vita a uno spazio in cui combattere stereotipi e tabù inerenti alla maternità. All’interno della pagina Facebook collegata all’Associazione, le autrici Nicoletta Nesler e Marilisa Piga hanno raccolto numerose testimonianze di donne stanche di essere definite “imperfette”, “egoiste” o “cattive” a causa una decisione che, a ben vedere, riguarda esclusivamente la loro vita. Le esperienze sono state raccolte in un webdoc a cui è seguito un film che ha avuto il merito di portare la tematica al centro della discussione anche in Italia, un paese refrattario ad affrontare l’argomento anche a causa della persistenza della morale cattolica che non accoglie positivamente chi sceglie di non far figli.
Stereotipi e tabù, dicevamo. È a causa di questo connubio se la narrazione intorno alla maternità – e di conseguenza nei confronti di chi decide di aderire o no all’ideale – risulta ancora fortemente innervata da visioni parziali e superficiali che rendono difficile discostarsi dal modello preposto. I media e la politica descrivono quest’esperienza come un evento totalizzante, l’unico in grado di dar senso alla vita delle donne. Si tratta di una mistificazione poiché non tiene conto dei tanti risvolti negativi che la maternità possiede, che vanno dalla frustrazione al senso di colpa, dalla fatica all’isolamento sociale.
Mostrare la maternità solo nel suo lato idealizzato significa invalidare le voci di coloro che si sono confrontate con un’esperienza dai contorni mutevoli e complessi, limitando al contempo la loro possibilità di chiedere aiuto, pena l’imbattersi nel biasimo sociale per non riuscire a ricoprire un ruolo che dovrebbe addirittura essere istintivo.
A proposito della questione genetica, nel loro articolo apparso su “Gender sexuality Italy”, le studiose Aura Tiralongo e Giuditta Bassano accolgono l’eco del discorso avviato negli anni Sessanta da Betty Friedman e identificano nella mistica della maternità «la pressione pratica e simbolica che spinge la donna sulla frontiera fra libertà personale e aspettativa sociale, dispensandola dalla scelta del poter stabilire le soluzioni più adatte per sé». Secondo le autrici, è in atto un forte richiamo alla retorica che sostiene l’esistenza di «una natura differenziale dei sessi a cui segue, come diretta conseguenza, una ripartizione dei compiti e dei ruoli sociali sulla base del sesso di appartenenza».
Quello identificato dalle autrici è atteggiamento che perdura da tempo, almeno dagli anni Settanta, quando il concetto di “orologio biologico”, con cui si identificava il ritmo sonno-veglia, cambia radicalmente significato per riferirsi l’età fertile delle donne. Nel 1978 il giornalista Roger Cohen pubblica un editoriale sul Washington Post dal titolo The Clock Is Ticking For the Career Woman che suona un po’ come un atto di accusa nei confronti del femminismo. L’autore sosteneva che a causa di questa corrente di pensiero le donne avessero perso tempo a compiere azioni da uomini, come dedicarsi alla carriera e allo studio. Secondo Cohen però, esse sono biologicamente diverse e non possono liberarsi di un istinto – quello della maternità – che sarebbe tornato a farsi sentire, diventando però irrealizzabile a causa dell’età avanzata. Apparentemente, dunque, lo scopo dell’articolo è mettere in guardia il genere femminile, invitandolo a non procrastinare quello che sembra essere il più importante evento nella vita di una donna. In realtà, il suo è stato anzitutto il tentativo più profondo di invocare la biologia per intimare loro di non sovvertire l’ordine sociale allontanandosi da un ruolo geneticamente imposto. Cohen incolpa le donne di anteporre le proprie esigenze agli obblighi della maternità. Tuttavia, omette dal discorso le condizioni sociali connesse a questa funzione.
Nel suo volume Non è un paese per madri, la ricercatrice Alessandra Minello ha voluto approfondire proprio quest’aspetto. Se da una parte «il mito della maternità agisce ancora in maniera capillare e radicata, contribuendo a rafforzare la pressione sociale sul diventare madre», dall’altra le politiche sociali ed economiche che consentono di rendere accessibile e sostenibile la procreazione si sono sfibrate, tanto da diventare inconsistenti. Il lavoro è diventato progressivamente sempre meno compatibile con l’avere figli ed è qui che si manifesta la child penality, ovvero la penalizzazione che subiscono le donne che hanno messo al mondo uno o più bambini. I dati Istat confermano che il tasso di occupazione varia a seconda delle condizioni della donna: l’11% di quelle che hanno almeno un figlio non ha mai lavorato, chi ha bambini in età prescolare fatica maggiormente a conciliare orari e carriera finendo nel giro di poco tempo con il fuoriuscire dal contesto lavorativo per dedicarsi alla loro crescita. Nonostante il tentativo di redistribuire le responsabilità derivanti dal ruolo di cura su entrambi i genitori, esse restano in gran parte sulle spalle delle donne. Per questo, le donne che, nonostante tutto, riescono a rimanere nel circuito lavorativo, sono spesso impiegate con contratti part-time, nella maggior parte dei casi involontari, cioè non scelti dalla dipendente ma imposti dal datore di lavoro.
Lo scenario lavorativo, per una madre, è a tinte fosche. È anche per questo che molte si sono stancate di rimanere imbrigliate all’interno di una narrazione idealizzata, che non corrisponde alla verità, e stanno cercando di metterla in discussione partendo dal proprio vissuto personale. Autrici come Selena Pastorino, Serena Marchi o Stefania Andreoli suggeriscono di riflettere sul tema partendo dalla propria soggettività, criticando un mito che ha un solo scopo: mantenere intatti i ruoli di genere a scapito della libertà delle donne. Nel processo di riequilibrio dei ruoli, la riflessione sulla maternità ha un posto centrale: la gender revolution si combatte sul piano interpersonale, decidendo quale posizione assumere dentro e fuori le mura di casa, ma ancora prima a livello personale, osservando quanto libere siano le scelte più intime che compiamo nella vita.
La scelta di procreare o non procreare è profonda, personale e soggetta a numerose variabili, molte delle quali risultano strettamente correlate con i profondi mutamenti (ambientali, sociali, politici) che incidono drasticamente sulla decisione finale. Il tentativo di mettere in discussione il mito della maternità, così come ci è stato tramandato dalle generazioni precedenti, affonda le sue radici proprio qui. Ed espandere le scelte a disposizione delle donne significa anche ampliare le loro possibilità riproduttive. Contrastare l’idea che la maternità sia solo quella del legame biologico e dello spirito di sacrificio significa accogliere tutte quelle donne che hanno costruito la propria capacità generativa in altro modo. Allargare le maglie di ciò che si può considerare ammissibile quando si parla di maternità permette, da ultimo, di rimuovere dal discorso l’ombra lunga della performance: generare (o non farlo) non è come compiere una gara, non ci sono medaglie che ci attendono alla linea di arrivo.