ARTICOLO n. 87 / 2022

MILANO MONIMENTO

Un racconto e una visione

Mi chiede: «Dove?» E io: «All’angolo fra viale Bligny e via Röntgen». Ci sono consuetudini toponomastiche. Avanzo veloce anche perché non so lui da dove viene. È stato mio ospite e si prepara a ripartire. Abbiamo due ore e poi parte. Ci assottigliamo. Ci diamo appuntamenti da fantasmi. Eppure eccomi qui: sono anche il noto io che veloce arranca, e arrancando si stanca, ma non teme i chilometri. Soprattutto sulle strade sghembe di questa città. Evito tram e motori, mi piazzo sull’altro lato del traffico, posso restare qui per una mattinata. Non è la prima volta che do appuntamento in questo punto preciso, che non è un bar, una banca o un grande magazzino: do le coordinate, dico cosa vedo e come posso essere visto, e chi mi raggiunge mi trova. Mi piace stare lì, perché da lì comincia o finisce una storia che non è solo quella dell’Università che prendendo il nome dal suo fondatore fa pensare a una pronità sofferta o a un’assunzione di cibo sproporzionata. 

Mi piace portare lì i miei ospiti stranieri, perché suona più semplice raccontare la città. Ma sarà poi un racconto o semplicemente una visione che si è insinuata in me con la sobria autorità di una sineddoche? La nuova Bocconi. Così si dice, quando si arriva a quell’incrocio: siamo di fronte a un episodio di architettura contemporanea che ha toccato l’intelligenza urbana di chi sa guardare – e non è detto che chi passa la attivi veramente. So dove mi trovo e vedo un filo, una sorta di filo sospeso che dalle strade alle mie spalle arriva lì e continua dritto davanti a me e continua, tagliando le cerchie, prima di perdersi oltre la via che, milanesizzata nel dialettizzato roeghen, suonava, nella mia infanzia, benefico trattamento terapeutico. Nel 1931 al 17 di via Beatrice d’Este abita un poeta grande. I fantasmi, me compreso, son benvenuti, giacché in fondo siamo, in quanto fantasmi, pura attesa, sospensione del tempo, attributo del vuoto. E qui il vuoto si colma con discrezione. Il Tessa scriveva in un dialetto che suggeva piuttosto che apprendere dalle bettole, dai postriboli, dagli inferni di ladri e di puttane, e, con una voracità ignota alla piccola borghesia, butterava la sua lingua e la lacerava forte, lasciandola stracciata e seminata che cantasse. Dal 17 di Beatrice d’Este a piazza Vetra il passo è breve. Collo lungo, occhialetti tondi, s’aggirava qui intorno, dove da un anno avevano tirato su case nuove e per un anno luci poche alle finestre, come dire niente affitti. Come in una tela di Boccioni, ci sono fabbriche “né su né giò” e impalcature tante, case che crescono come funghi, e un operaio disoccupato che chiede a gran voce lavoro. Ci vedeva bene il Tessa,  vede la ragazza-bambina con il pacco chiuso con la corda (“Hoo mai vist,/ Ciana, / ona povera tosa/ come ti”) che se ne va, chissà dove. Nell’Italia “volitiva e guerriera”.  

Lui viene da una lingua insofferente, abrasiva, ed è uomo di quasi quarant’anni capace di morire di un ascesso dentale non curato – una morte che accade un anno dopo lo strazio di Antonia Pozzi suicida a Chiaravalle in una notte d’inverno. Come se ci fosse un filo in quei giovani milanesi, e una volontà. Ci vedevano bene. Milano si vede bene. Come l’aveva vista bene Umberto Boccioni, vent’anni prima, attraverso il rumore delle officine, che poi vennero definitivamente “su” a sud-ovest della città, e sono gli stessi opifici per i quali , giovane, mio padre andava fiero della classe a cui apparteneva. Avanzo in questo intreccio. Dove avesse imparato, mio padre, che il vero snodo della cultura operaia milanese fosse il “lavoro ben fatto”, non so ricostruirlo con esattezza. Più che nell’aria il concetto era nelle cose. Anche nelle cose sperate a cui guardava. Per certo il suo lavoro principiava dall’esattezza del disegno che anticipa la produzione dell’utensile. 

Devo mostrare a Mark certi disegni che mi sono rimasti. Li capirebbe. Hanno uno spessore di carta che resiste, sciami di inchiostri blu. Fu la sua – la nostra? – una tensione viva che passa immateriale anche in questo incrocio di strade e che magari ispira la dignità dei blocchi sospesi e dei canons à lumière, il cemento a vista e il ceppo grigio di Gré. Farò sentire all’amico Mark, architetto alla Georgia Tech University di Atlanta, con quanto senso del tempo e del luogo han lavorato, fra il 2002 e il 2008, Yvone Farrell e Shelly McNamara, irlandesi. Il ceppo è una citazione lombarda, ed è pietra metamorfica che, dove c’è, fa scattare la memoria urbana e, allo stesso tempo, racconta la pazienza dei fiumi, il ciottolo imbrigliato, il rosso e il bruno, il velluto quando tocchi. Anche in via Sarfatti quattro strade più in là, ah come si sente, e come si torna al Giuseppe Pagano che disegnò e distribuì spazi, filtrando luce fra i serramenti di quel verde scuro che fu per sempre suo. Quanta città di ferro. E quanta città di pietra. Quanta pensosa geometria nell’uno e nell’altro caso.Geometria che qui è diventata monumento prima ancora di sentire la presenza dei suoi interlocutori e destinatari, ed è significativo che diventi memoria prima di produrla, quasi l’intenzione fosse quella di volgere in monimento la disciplina – e qui ha un senso – delle scienze economiche e sociali. 

Mark è un uomo alto, più corpulento che grasso, d’un biondo mite da svedese. Gli piacciono i sapori e del piatto italiano lo convince anche la quantità. Averlo a tavola è una festa per chi cucina. Come artista si è inventato autore di alte cortine di tessere di carta colorata (tiles le chiama lui) che pendono a creare nubi di luce. Mark ritarda e io mi muovo. Direi quasi che precipito nel cuore della cittadella universitaria. All’angolo di via Lepoldo Sabbatini cerco in alto il balcone, la finestra da dove al ventenne redattore che ero allora il grande vecchio Cesare Musatti indicava le inferriate verdi di Pagano e indulgeva, abile nel restituire il sogno, nell’evocare l’aneddoto. Vedi, diceva, all’alba al primo risveglio non so più se son qui o nella mia Venezia e quei verdi telai orizzontali non siano riverberi delle Procuratie Vecchie. Che direbbe ora contemplando i trilli di luce metallica del Campus, la grazia nipponica di Kazuyo Sejima e di Ruye Nishizawa? Dovrebbe sporgersi, cercare in fondo alla strada. 

Sono forme. E le forme dicono la città e dicono anche il mio esserci dentro, figlio di uno spirito che non teme metamorfosi. Dove la superficie si muove in giri morbidi, ad accogliere futura classe dirigente, c’era una Centrale del Latte, anzi la Centrale del Latte – azienda municipale, sentita con orgoglio, quasi la garanzia di crescita della gioventù post-bellica si materializzasse (o si smaterializzasse?) nell’idea dell’alimento primo. 

E il bianco opaco, ricco, si scioglie per liquidità nella ricchezza trasparente dell’acqua della città, che ha una sua fama – Pinin Carpi raccontava l’incanto di scoprire, prima della guerra, in pieno centro, complice lo scavo delle fondamenta di un istituto bancario, un lago azzurro di acque sorgive. E quelle acque le si continua a immaginare sotto di noi, incanalate per condotti e vasche e fossi, tanto che, solo cinquecento metri più in là, colano, muschio rugginoso, dagli sfiatatoi della Centrale dell’acqua di via Crema. 

Mi attraversano senza fare caos, le pietre del Brembo, le frese mangia acciaio, le visioni crepuscolari di un grande investigatore d’anime, l’acqua che traluce limpida nel buio, la danza bianca del latte imbottigliato e puttane morte e bambine povere. Tutto defluisce in me, con decenza fantasmatica. 

Mi piace pensare che Milano non abbia mai smesso di nascere, e che quindi ci si possa trovare davanti a una faccia che non ha mai coinciso né con chi l’ha governata né con chi ne ha voluto dettare una presunta identità. Forzo questa sensazione, ma so anche che non è eccessiva.  Nelle forme di Milano la Storia si manifesta solo attraverso una sorta di guizzante didascalia che sfarina, che sgruma.  

C’è una folla di studenti che preme fra portici e giardini.  Portano in giro facce. Cerco Mark sul cellulare ma non risponde – lo so, è suo costume. Come fossimo quarant’anni fa ci troviamo comunque. Anzi, sono io che lo trovo.  Tiene il palmo della mano premuto sui blocchi di ceppo in via Sarfatti. L’altro Ceppo, quello di Giuseppe Pagano. Mark comincia dal principio. Io lo aspettavo a un punto del tempo più vicino. E invece lui è qui ed è perciò che ritardava. Ha una passione per il razionalismo, dice Milano ha avuto fortuna di stare negli anni Trenta senza il rischio della magniloquenza. Dice che, ad Atalanta, tiene in casa un ingrandimento della fotografia in cui appaiono intorno a una scrivania, seri e giocosi al contempo, i quattro BBPR in camice bianco, Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Perassutti ed Ernesto Nathan Rogers. Dice che sotto la targa che li ricorda a due passi da San Simpliciano puntualmente si commuove.

E allora dove vanno anche queste sue lacrime americane? Cos’è che ci tiene insieme e tiene insieme l’avventura di saperci fra gli storditi cespugli della nostra Storia? Ci sediamo a terra davanti a una vetrata del Campus: ci sono sedie, tavoli, computer e al di là un cortile verdissimo. Mark deve partire per Barcellona, ma siede tranquillo: è venuto per mettere ancora un po’ della mia Milano dentro la sua Milano. Una sua parola chiave è detail. Vede dettagli ovunque, e io gli sono grato perché li vedo, a volte, per la prima volta insieme a lui: una maniglia, un corrimano, un marcapiano invisibile, una fonte di luce. Lo rivedo salire la scala elicoidale di Casa Corbellini-Wassermann di Piero Portaluppi e tutto carezzare, assorbire, tradurre via pelle alla memoria, anche le ombre artigliate ai marmi. Vien da chiedersi senza indulgere al vittimismo cosa faremo di tutta questa ricchezza. Dice che non abbiamo idea di quanti dettagli invisibili è fatta questa città. E i dettagli risvegliano l’arte del “far bene” sulla quale si intestardiva mio padre. Lui forse non sarebbe stato preda di queste forme, ma altre avrebbe esaminato con il lentino e avrebbe provato la letizia dell’opera compiuta e utile. Dove sono gli strappi la città si ingorga, soffoca, non parla. Da troppo tempo sappiamo che il presente è l’accadere degli inciampi, e di inciampi sarebbe bene discettassero i nostri libri di lettura. La grammatica. Le frasi giuste. La bella scrittura. Perché di tutto si dia conoscenza. 

Mark si allontana, lo seguo, ritorniamo assieme alla “nuova Bocconi”: gli racconto di Tessa e del suo ascesso letale e dei suoi versi ferali (traduco all’impronta dal milanese e all’inglese, con soddisfatta approssimazione). Abbiamo bisogno dell’amicizia dei fantasmi, d’una bambina povera come mai ne ho viste, d’un poeta a cui si ferma il cuore davanti a un pioppo caduto, d’un architetto che, fascista per vent’anni, muore in un lager quindici giorni prima che arrivino i russi a liberarlo. Sia lode ora, agli uomini di fama, che ci crescono dentro prima che torni un altro buio.

ARTICOLO n. 93 / 2024