ARTICOLO n. 69 / 2024

AI YOGA PER INTELLIGENZE ARTISTICHE

Che tecnologia e innovazione siano sinonimi è un fraintendimento a cui ci siamo abituati, che abbiamo introiettato e ripetuto non tanto a partire dall’avvento di internet, come verrebbe istintivo dichiarare, ma ben prima, e cioè ogni volta che l’umanità si è trovata a confrontarsi con la nascita di uno strumento tecnico di cui ha avuto timore intuendone il potenziale rivoluzionario. La verità è però che la tecnologia è un fatto umano, ed è questo il primo e più importante punto di intersezione con il concetto di innovazione.

Nel contrapporre uomo e macchina, nel prodigarci per difendere il primo dalla seconda, abbiamo rischiato di dimenticare quanto ogni progresso tecnologico risponda, essenzialmente, al bisogno umano di trovare strumenti e alleati per rispondere alle domande sempre più complesse che l’uomo si pone. L’intelligenza artificiale è l’ultimo di questi avanzamenti spaventosi, e c’è stato un gran dibattere – e dibattersi – per mettere al riparo l’arte e la creatività dall’intrusione di una tecnologia che, si diceva e si dice, finirebbe per soppiantarle. Ma se fare arte significa problematizzare il reale, sollevare domande, aprire spiragli inediti e allenare sguardi inaspettati, è contradittorio pensare che questa non debba o non possa confrontarsi con l’ultima delle rivoluzioni tecnologiche. A che punto siamo nell’interazione tra arte e tecnologia? Che cosa risulta dal dialogo tra intelligenza artistica e intelligenza artificiale?Queste le domande da cui prende avvio la mostra “AI Yoga per Intelligenze Artistiche”, inaugurata a Milano il 19 settembre presso MEET Digital Culture Center – il Centro Internazionale per l’Arte e la Cultura Digitale.

Il MEET è un museo che dà spazio alle avanguardie, con una particolare attenzione al dialogo tra arte e dimensione digitale. Si trova a Porta Venezia, quartiere ibrido e difficile da incasellare, ai limiti del centro di una città irrequieta. Arrivare al Meet è dunque già un buon modo per prepararsi a ciò che si vedrà al suo interno: opere ibride, irrequiete, sperimentali, che interrogano il presente perché nel suo flusso si inseriscono, senza timori conservativi. 

La mostra “AI Yoga per Intelligenze Artistiche” nasce dal dialogo di dieci artisti italiani – Accurat, Lorenzo Bacci e Flavio Moriniello, Roberto Beragnoli, Alessandra Condello, Francesco D’Isa, Lorem (Francesco D’Abbraccio), Katsukokoiso (Eugenio Marongiu), Mauro Martino, Andrea Meregalli e Mattia Piatti – con il nuovo portatile Lenovo Yoga Slim 7x. Un dispositivo dotato di un’unità neurale in grado di processare fino a 45 trillioni di operazioni al secondo. Non so che cosa significhi e provo una sorta di timore reverenziale quando ne vedo due esemplari poggiati all’ingresso della mostra. Non temo che siano più intelligenti di me. Temo invece che, se mi capitasse di interagirci, non sarei in grado di trovare la lingua adatta per comunicare, e cioè per spiegare al dispositivo cosa penso e come intendo ciò che penso, cosa ho intenzione di creare e come potrebbe aiutarmi a farlo.

La sensazione non mi abbandona quando rivolgo l’attenzione alla prima opera: Viaggio in Italia di Roberto Beragnoli. Si tratta di un documentario in stile cinegiornale Istituto Luce, con tanto di voce narrante di Emilio Cingoli, celebre e prolifico doppiatore italiano. Qualcosa dunque di familiare, che immediatamente sollecita la memoria e ci rassicura. Dopo pochi secondi, però, accade qualcosa di inaspettato. Il riferimento che abbiamo individuato è scalzato da una sorta di disturbo difficile da definire, un bizzarro stridore tra il cinegiornale che conosciamo e il cinegiornale che stiamo vendendo si insinua in noi, emanato dall’opera. Non è facile capire a cosa sia dovuto, individuare che cosa non torni, eppure qualcosa non lo fa ed è presto evidente che quello che stiamo guardando non è ciò che nei primissimi secondi avevamo individuato. La meta del viaggio oggetto del cinegiornale non è l’Italia ma il risultato di reminiscenze non più esclusivamente umane: un’Italia hackerata, verrebbe da dire, da un intruso indefinibile, risultato del dialogo e del confronto tra uomo e macchina, tra artista e algoritmo.

Proseguendo lungo il percorso espositivo vengo catturata dall’opera Brave New World – Dancing with the Machine, installazione fotografica di Lorenzo Bacci e Flavio Moriniello che documenta tramite istantanee fotografiche una delle più durature e anarchiche forme di aggregazione sociale degli ultimi decenni, ovvero la cultura rave. Vengo di nuovo rassicurata da qualcosa che conosco, alla cui estetica e se vogliamo etica sono abituata. Di nuovo, però, un glitch si intromette, un disturbo che ricorda lo schermo grigiastro e vibrante di un vecchio televisore senza segnale. Questa volta individuo il campanello d’allarme: il volto di una delle donne gloriose e devastate fotografate a questo rave assomiglia terribilmente a Marla Singer, la protagonista femminile del film Fight Club. Le assomiglia senza essere lei, capisco a uno sguardo più attento, e allora proseguo scrutando ogni volto e riconoscendo in ogni volto me stessa, il mio amico, il vecchio cultore di musica techno che si incontra nei club berlinesi e, contemporaneamente, non riconoscendo fino in fondo nessuno. Si tratta di fotografie generate dall’Intelligenza Artificiale: vicine alla realtà e allo stesso tempo altrove, un altrove onirico e sfuggente. 

«Le opere che compongono la mostra vivono all’interno di una dimensione estremamente onirica, sembrano dei piccoli sogni» racconta Valerio Borgonuovo, curatore della mostra e ricercatore. «Questo è dovuto ad aspetti formali attraverso cui l’IA generativa costruisce e assembla le immagini in movimento. I corpi si liquefanno e osserviamo una continuità innaturale e talvolta illogica tra un’immagine e l’altra. Tutto ciò è molto simile a come funzionano le nostre fasi neurali nel sonno, per cui il risultato del dialogo tra artista e dispositivo è un ancora un dialogo tra la veglia e il sonno, al limite dello stato di coscienza». 

Proseguo il viaggio negli spazi espositivi del MEET fino ad arrivare alla sala immersiva, che ospita quella che si potrebbe definire una quadreria digitale animata dai lavori pittorici e video di Alessandra Condello, Mauro Martino, Francesco D’Isa, e Katsukokoiso (Eugenio Marongiu). Sono lavori molto diversi fra loro, a unirli però è l’inaspettata capacità di risultare pieni di grazia e insieme angoscianti. Le infinite vite possibili di ognuno di noi esplorate nell’opera Me-Me di Mauro Martino, dove il protagonista del video generato dall’IA cammina per una Milano camaleontica trasformandosi insieme a essa, convivono con il lavoro pittorico digitale di Francesco d’Isa. L’opera Erranze/Errancies dà vita a una poetica dell’errore e del vagabondaggio: i dipinti digitali sono il frutto della tendenza dell’artista ad assecondate l’errore della macchina, a dare spazio ai fraintendimenti che necessariamente avvengono quando l’uomo e il computer si trovano a dialogare. 

«L’arte non è un algoritmo, è un dialogo. Un dialogo tra l’intuizione umana e gli strumenti che la amplificano. L’intelligenza artificiale, come lo Yoga Slim 7x di Lenovo, non sostituisce l’artista, ma ne diventa il complice, il compagno di viaggio in territori inesplorati», dice Francesco D’Isa.

La domanda che rimane aperta, quando si esce, arricchiti e frastornati, dalla mostra AI Yoga per intelligenze artistiche, è come sia avvenuto questo dialogo. Perché ogni confronto con un’opera d’arte che possa dirsi tale richiede di arrendersi alla difficoltà, quando non all’impossibilità di tradurre a parole ciò a cui si è assistito. Come si dice un’opera d’arte? Come si spiega? 
A dire il vero in questo caso la domanda è capovolta. E cioè: che cosa hanno detto questi artisti alla loro macchina per raggiungere il risultato che abbiamo visto? Quale lingua hanno usato, quale chiarezza intima e poi espositiva hanno dovuto allenare perché l’opera risultasse come è risultata? E ancora: quante rinegoziazioni, errori e fraintendimenti sono stati parte del processo creativo, arricchendolo? 

«Dovresti vedere quanto sono brutte le cose che creo io quando provo a usare questi strumenti. Questo dimostra che il risultato varia enormemente in base a chi li utilizza. Ci sarà sempre un’intelligenza artistica capace di padroneggiare ogni nuovo strumento, proprio come uno scultore sa usare lo scalpello o un pittore il pennello», conclude Borgonuovo. 

Torniamo all’inizio: tecnologia e innovazione non sono sinonimi. Tuttavia, quando l’intelligenza artistica entra in dialogo con la tecnologia, senza timore e consapevole del proprio valore insostituibile, innovare diventa un esito possibile, e la tecnologia può smettere di essere antagonista per farsi strumento utile e vitale. 

ARTICOLO n. 74 / 2024