ARTICOLO n. 59 / 2022
AGOSTO, IL MESE CHE NON C’ERA
Dove sarò QUESTA ESTATE?
Mi ci sono voluti più di vent’anni per accorgermi del mese d’agosto. Da ragazzo, e più ancora da bambino, percepivo soltanto il rituale delle vacanze. La spiaggia, le passeggiate in montagna. Il resto se ne restava a casa, come chiuso in un deposito. Erano le estati remote durante le quali le signore della buona borghesia portavano le pellicce ai Frigorigeri Milanesi, per evitare che si sciupassero con il caldo. Agosto – ogni agosto – era così: un tempo messo in conserva, un patrimonio di qualche settimana da investire altrove. Per un mese tutti erano irrevocabilmente da un’altra parte e le città erano davvero come Roma nelle prime scene del Sorpasso, con le strade deserte, le saracinesche abbassate, qualche sparuto bar tabaccheria aperto per gli obblighi di legge. Si potrebbero fare altri esempi, d’accordo, ma il clima del Sorpasso mi sembra un buon compromesso tra le geometrie metafisiche del cinema di Antonioni e la tragicommedia di Verdone, che in Un sacco bello ospita la bella ragazza spagnola dispersa per i vicoli della capitale («Tinto? Tinto quer vino? Ma che stai a scherza’? Quello è ‘n Brunello, un vino antichissimo…»).
Dell’esistenza di agosto come mese in sé, nella sua mensualità effettiva e non solo ideale, avevo avuto qualche percezione tra la fine del liceo e gli anni dell’università, ma erano sprazzi di pochi giorni, balenati quasi per via allucinatoria in coda oppure alla vigilia di un esame. L’estate del 1987, invece, cadeva alla metà esatta del mio servizio civile, che allora durava venti mesi. Benché obiettore di coscienza (o, meglio, in quanto obiettore di coscienza), ero sensibilissimo ai regolamenti, che vietavano di allontanarsi dalla regione nella quale si svolgevano le mansioni assegnate. Circolavano voci di punizioni leggendarie comminate ai trasgressori, che mi figuravo incalzati da una specie di psicopolizia capace di intercettare la minima incursione fuori dai confini stabiliti.
La realtà era più clemente, ma questo l’ho compreso molto più tardi, superata la soglia dei cinquant’anni, quando all’improvviso ti rendi conto che per mezzo secolo ti sei complicato l’esistenza senza che l’esistenza stessa fosse disposta a mostrare gratitudine per tanta fatica non richiesta. Non che con la mezza età si diventi necessariamente anarchici, però una ragionevole revisione della norma è l’unico modo per evitare di precipitare nell’autoritarismo nostalgico. Quale che sia la nostalgia che si asseconda, quale che sia la fantomatica autorità che si pretende di restaurare.
Era il 1987, dunque, era agosto, faceva caldo e da Milano non potevo muovermi, o almeno era questo che volevo credere. Qualche giorno di licenza l’avrò anche avuto (pur costituendo un’alternativa al servizio militare, quello civile ne aveva mutuato il linguaggio: memorabile la diaria di poche lire riconosciuta per l’usura degli “effetti letterecci”), ma gli uffici della Caritas non prevedevano chiusure prolungate, qualcuno in sede doveva esserci, agosto o non agosto. Era più che altro un lavoro di ascolto e assistenza a beneficio degli obiettori presenti e futuri. Si davano informazioni, si sbrigavano le pratiche del caso, si aspettava che dalle finestre spalancate arrivasse la consolazione di un filo d’aria. Fin qui, nulla di strano. Era agosto, d’accordo, ma poteva anche essere luglio inoltrato. Non ci sarebbe stata differenza.
Agosto aspettava fuori, nella città svuotata e silenziosa, tanto diversa dall’immagine che Milano dava di sé in quegli anni. Velocità ed efficienza, affari e politica, discoteche e tagliata con la rucola. Che fosse l’inizio della fine nessuno ancora lo sapeva. Cinque anni, non di più, e sarebbe arrivata Tangentopoli, con le sue promesse mancate, gli incomprensibili colpi di scena, la sbalorditiva eterogenesi dei fini. Gli anni Novanta avrebbero completato l’opera, stabilendo le premesse della grande liquefazione globale di abitudini e convenzioni. In vacanza, nella fattispecie, avremmo iniziato ad andarci più o meno tutto l’anno, anche perché un viaggio fuori stagione può convenire a tutti, ai datori di lavoro che diluiscono le assenze e ai dipendenti che approfittano di qualche offerta a prezzi stracciati. Ma nell’87 no. Nell’87 alla serrata agostana non si davano alternative, il calendario era insidiato dall’inesorabile iato estivo e chi rimaneva in città viveva un’esperienza da sopravvissuto. Oltretutto, per una serie di vicende troppo complesse da riassumere qui, mi ero ritrovato solo in casa e questo rafforzava il mio sentimento di Robinson urbano. Dovevo andare alla scoperta dell’isola alla quale ero approdato. Un’isola che prima non c’era, come si sarebbe potuto sostenere combinando Defoe con Peter Pan e aggiungendo una correzione di Bennato.
Per orientarsi non servivano le stelle e, più che andare dritto fino al mattino, si aspettava che arrivasse sera, nella speranza che le zanzare – ambrosianamente competitive – non guastassero del tutto il sollievo dell’avvenuto tramonto. Lo spazio del giorno era apparentemente identico a quello che già conoscevo, ma era il tempo a conferirgli una consistenza diversa. Potevo considerarmi fortunato per il fatto che nel mio quartiere ci fosse un supermercato e che il supermercato fosse regolarmente aperto. Non era un posto che frequentassi d’abitudine. Come in quasi tutte le famiglie di allora, anche per la mia la spesa era un pellegrinaggio ravvicinato da un negozio all’altro. La logica per cui il pane si compra in panetteria, la carne in macelleria, gli affettati in salumeria eccetera appariva ancora inoppugnabile. I supermercati erano comodi, nei supermercati si trovava tutto, ma potendo scegliere, si sceglieva il negozio. Potendo, appunto. In agosto non si poteva.
Di dimensioni tutto sommato ridotte rispetto agli ipermercati che si sarebbero imposti da lì a qualche anno, il supermarket di zona garantiva il refrigerio dell’aria condizionata, ma il suo vero fascino risiedeva nel carattere di epitome e Wunderkammer. Quelle scaffalature ordinate e linde richiamavano alla memoria gli assortimenti arbitrari dei piccoli spacci che non mancavano mai nelle località di villeggiatura. Era come se tutte le rivendite attraverso le quali ero transitato fino a quel momento si scomponessero e ricomponessero nel supermercato rispondendo a uno schema finalmente comprensibile, eppure tanto meno avventuroso rispetto al caos bellicoso dei palloni ammucchiati al ridosso del banco dei formaggi o dei distributori di gomma da masticare piazzati nel mezzo di corridoi già di per sé stretti, e ingombri di confezioni di acqua minerale precariamente impilate. Il supermercato alludeva a quel bric-à-brac favoloso, ma solamente per smentirlo e ricondurlo alla ragione. Tuttavia, bastava chiudere gli occhi per liberare le merci da ogni costrizione e restituirle alla loro lieta mescolanza.
Per mutare la percezione del luogo occorreva affidarsi alla mobilità del tempo, che è previsione e memoria. Soltanto così era concesso di attraversare la frontiera che altrimenti regolava i rapporti tra l’agosto della città, feriale e produttivo, e l’agosto delle vacanze, festivo e spensierato. L’uno conteneva l’altro e, in una certa misura l’interpretava. Il mese che prima non c’era ricapitolava in sé ogni altra estate che avevo vissuto. Lo sterrato dei giardini di Porta Venezia mi riportava su un sentiero alpino e l’odore dell’asfalto dopo un temporale risvegliava misteriose affinità con il microclima di una pineta affacciata sul Tirreno.
Non era propriamente illusione, né lo fu negli anni successivi, quando per me l’agosto urbano si trasformò in abitudine. Un decennio più tardi, sposato e padre di due figli, mi sarebbe capitato spesso di rimanere in città, mentre il resto della famiglia si trasferiva in qualche località di mezza montagna, solitamente nella Bergamasca. Eccezion fatta per il pendolarismo del fine settimana, vagavo tra mattinate relativamente pigre e pomeriggi incalzanti, secondo i ritmi allora caratteristici della redazione di un quotidiano. Mi attendevano lunghe sere di lettura alternate alla visione di film recuperati al videonoleggio, dove di tanto in tanto mi rifornivo anche di una pizza surgelata. Perché sì, lo confesso: c’è stato un tempo in cui una pizza surgelata mi sembrava un compromesso accettabile. E no, non posso fingere di non ricordare che c’è stato il tempo dei VHS da guardare in una sera o due, altrimenti scattava la penale e la convenienza andava perduta.
Epoche lontanissime, che parlano con la voce dello Spirito degli Agosti Passati. Forse, nelle dovute circostanze, perfino Dickens avrebbe composto un Canto di Ferragosto, con quel taccagno di Scrooge che nega all’onesto Cratchit i bollini della spesa che farebbero felice il povero Tim. Divago, lo so, mi lascio trasportare, ma la chimera di A Midsummer-Night’s Carol realizza per un instante uno dei miei sogni più innocui e cari: quello in cui Dickens e Shakespeare si scambiano le parti, così che uno possa riscrivere a modo suo le opere dell’altro. Hamlet Twist, A Tale of Two Tempests, Pip and Juliet… Che biblioteca meravigliosa ne uscirebbe, da portarla con sé per tutto il mese di agosto e non pensare ad altro, né mare né città, né afa né montagna. Del resto, solo nel mese che non c’era si potrebbero leggere libri che ancora non esistono.