ARTICOLO n. 23 / 2025
“ADOLESCENCE”: ANATOMIA DEL RISENTIMENTO
Prima che la luce bluastra degli schermi rimodellasse i confini dell’adolescenza, esisteva già un abisso: quello dell’incomunicabilità tra generazioni. Adolescence parte da questa frattura primordiale per mostrarci come, nell’era digitale, tale abisso si sia trasformato in un baratro frattalico da cui risalire pare non essere un’opzione.
La serie di Thorne e Graham non racconta semplicemente una storia di radicalizzazione online; racconta il non detto, i silenzi che separano i figli dai genitori, gli studenti dagli insegnanti, i ragazzi dal sistema che dovrebbe proteggerli. Al centro di questo vuoto comunicativo si staglia la maschilità contemporanea, alla ricerca di una bussola tra modelli di riferimento in evoluzione e una difficoltà nell’articolare emozioni complesse.
Gli adulti di Adolescence parlano una lingua obsoleta, basata sulla presunzione di conoscere i propri figli, mentre i ragazzi abitano un universo parallelo fatto di codici, meme e teorie che trasformano l’incapacità emotiva in ideologia. In questo deserto comunicativo, le emozioni maschili – frustrazione, desiderio, insicurezza, rabbia – non trovano canali legittimi di espressione, ma vengono redirette verso l’unico spazio che sembra accoglierle: la “manosphere”, con le sue rassicuranti formule matematiche e le sue promesse di controllo in un mondo percepito come ostile.
Nel silenzio inquieto di una camera da letto, tra la carta da parati con gli astronauti e la Playstation, si consuma un moderno rituale iniziatico: l’introduzione alla manosphere. Adolescence cattura questo momento con la spietata continuità di un piano sequenza che non concede respiro. La narrazione, come l’obiettivo della telecamera, non distoglie mai lo sguardo da quello e dagli abissi collaterali che ne originano.
La storia di Jamie Miller, tredicenne al centro di un’indagine sulla morte della compagna Katie, si snoda come un nastro di Möbius nell’inferno domestico contemporaneo. Non sono tanto le circostanze del tragico evento a scuoterci, quanto la lucida quotidianità che lo avvolge: un ragazzo qualunque, una famiglia normale, e quell’80/20 che ossessivamente risuona nelle conversazioni online – il principio di Pareto, trasformato da legge economica a dogma relazionale nella liturgia della frustrazione online.
Quell’80% delle donne che, secondo il nuovo vangelo digitale, compete solo per il 20% degli uomini “alfa”, è più di una semplice distorsione statistica: è l’algoritmo del risentimento, la formula matematica del rancore. Jamie non l’ha inventata, l’ha semplicemente assorbita, goccia dopo goccia, scroll dopo scroll, fino a farne una lente attraverso cui decodificare l’universo femminile e le relazioni.
La seduzione di questa formula risiede nella sua apparente scientificità, nella sua capacità di trasformare l’indecifrabile complessità delle relazioni umane in un’equazione rassicurante. L’essere prevedibile fa stare al sicuro. Il principio di Pareto, nato per descrivere la distribuzione della ricchezza nell’Italia del XIX secolo, migra così dal territorio dell’economia a quello dell’identità, offrendo una narrazione seducente a chi cerca risposta all’antico enigma del rifiuto e dell’esclusione.
Ciò che la serie mappa con precisione clinica è il percorso di questa migrazione concettuale: come una teoria economica diventi antropologia, una statistica mutata in teologia. Nei forum che Jamie frequenta, l’80/20 non è oggetto di dibattito ma articolo di fede, non è mai ipotesi ma dogma. È la descrizione di una predestinazione.
La brillantezza della scrittura sta nel mostrare l’effetto cumulativo dell’esposizione a questo dogma. Jamie non è mai mostro, e non c’è volontà di dipingerlo così. È un convertito che manifesta la propria devozione. Le sue parole durante il colloquio con la psicologa non sono espressione di creatività malvagia, ma recitazione di un catechismo appreso, ripetuto, interiorizzato fino a diventare natura.
E come ogni algoritmo che si rispetti, anche quello del risentimento si autoalimenta. Ogni rifiuto, ogni sguardo distolto, ogni conversazione interrotta diventa non un’esperienza personale da elaborare, ma un dato che conferma la regola, un’ulteriore iterazione che rafforza il modello predittivo. L’80/20 diventa così una profezia che si autoavvera: chi lo interiorizza inizia a muoversi nel mondo con l’aspettativa del rifiuto, generando comportamenti che, paradossalmente, aumentano la probabilità di essere rifiutati.
La serie, nel suo implacabile piano sequenza, riflette l’inesorabilità di questa progressione: dalla curiosità all’ossessione, dall’ossessione alla rabbia, dalla rabbia al potenziale atto violento. Un movimento continuo, senza stacchi, senza pause, senza via d’uscita – e, in ultimo – senza redenzione.
Nel terzo episodio, l’incontro tra Jamie e la psicologa si trasforma in una devastante epifania: ciò che ascoltiamo non è la voce di un tredicenne, ma l’eco cacofonica di mille forum anonimi, l’incarnazione sanguigna di una comment section sotto a milioni di post sui social dai modi e toni che conosciamo fin troppo bene.
Ma è nel momento di vulnerabilità più acuta che il colloquio rivela una verità impossibile da ignorare. Quando Jamie, in un sussurro quasi inudibile, domanda alla psicologa: “Ma io ti piaccio?”, assistiamo alla perfetta cristallizzazione della paradossale dualità della manosphere: la coesistenza di impulsi distruttivi e un disperato bisogno di validazione. Questa domanda, apparentemente infantile, contiene l’intero dramma dell’adolescenza e della gioventù maschile: il desiderio di connessione autentica che, non trovando risposta, si trasforma in risentimento.
La risposta della psicologa, che rimane misurata e professionale per tutto il colloquio, viene percepita come un altro rifiuto, un’ulteriore conferma della teoria dell’80/20. L’incapacità di Jamie di distinguere tra una relazione terapeutica e una personale diventa specchio della confusione tra intimità e dominio che la manosphere promuove. In quel breve scambio, vediamo l’algoritmo del risentimento eseguire in tempo reale la sua implacabile routine: trasformare la vulnerabilità in aggressività, il bisogno in pretesa, il rifiuto in giustificazione.
Le sue parole – frammenti di teorie incel, brandelli di “pillole rosse”, l’ossessiva menzione della “debolezza” femminile – sono i reperti archeologici di un’identità costruita sui fondali oscuri del web, amplificata tra i pari. La psicologa non incontra il vero Jamie; incontra un collage vivente di Reddit, 4chan e forum incel, un palinsesto di rabbia collettiva.
Ciò che Adolescence cattura, con la precisione di un entomologo, è la metamorfosi di un linguaggio: come la grammatica dell’odio digitale si traduca in sintassi carnale, come l’astrazione matematica di un principio teorico diventi potenziale catalizzatore di violenza reale.
Jack Thorne, tessendo la sua narrazione, non ci offre la facile catarsi della comprensione. Non c’è un perché ultimo, nessuna eziologia consolatoria del male. C’è solo il processo, mappato con la fredda lucidità di chi sa che non basta denunciare l’algoritmo se non si comprende la vulnerabilità che lo alimenta.
Quando Jamie parla di Katie, riferendosi a lei come “debole” e ripetendo che “tutti la chiamavano sgualdrina”, non sta semplicemente riportando; sta applicando il lessico appreso, sta categorizzando secondo i parametri che ha imparato a memoria, l’esecuzione di un codice comportamentale scaricato dalla rete. La violenza verbale aleggia nell’aria con l’inquietante potenzialità di un teorema in attesa di dimostrazione.
La vera tragedia che si consuma sullo schermo non è tanto l’omicidio, quanto l’incomprensione abissale tra generazioni. I genitori di Jamie, come gli adulti che li circondano, contemplano con orrore l’alieno che hanno cresciuto, incapaci di decifrare il codice che ne ha riscritto l’identità, con un dolore che pretende di essere visto e si prende di diritto tutto il racconto dell’ultima puntata.
“Lo abbiamo creato noi”, si dispera la madre, ignara che la vera genesi è avvenuta altrove, in quell’utero digitale dove il 69% dei ragazzi britannici tra gli 11 e i 14 anni viene esposto a contenuti problematici che plasmano la loro visione del mondo.
L’impotenza degli adulti – genitori, insegnanti, persino la giustizia – diventa così il vero orrore della serie: non ci sono mostruosità o devianze, solo istituzioni obsolete di fronte a una mutazione antropologica che avviene in tempo reale, sotto i nostri occhi, oltre la nostra comprensione.
Le statistiche recitate con freddezza burocratica dall’Office for National Statistics – il raddoppio delle ragazze sotto i 16 anni uccise con coltelli in un solo anno – proiettano, alla luce di Adolescence, l’ombra inquietante di fenomeni che trascendono i casi isolati: un’onda silenziosa che si propaga dalle camerette agli spazi pubblici, dalle community virtuali alle relazioni reali.
Non è una coincidenza che la serie sia girata senza stacchi, in un flusso ininterrotto che mima l’inesorabilità dei processi, anche algoritmici. Questa scelta formale incarna la vera natura del pericolo: non c’è montaggio, non c’è postproduzione, non c’è la consolazione del taglio che separa la causa dall’effetto. C’è solo il continuum spietato di una trasformazione che, una volta avviata, procede inesorabile verso un orizzonte di possibilità sempre più oscure.
Ciò che Jamie assorbe online non rimane confinato allo schermo, ma infiltra la sua percezione del mondo, la sua interpretazione delle relazioni e dei suoi stessi sentimenti. La radicalizzazione digitale opera come un lento avvelenamento: impercettibile nelle sue fasi iniziali, devastante nei suoi effetti cumulativi. In questo amalgama sociale, le insicurezze adolescenziali si trasformano in rabbia codificata, l’inadeguatezza in risentimento strutturato, la vulnerabilità in ideologia difensiva. Un ciclo che si autoalimenta nell’economia della frustrazione, lasciando chi guarda a confrontarsi con l’inquietante domanda: fino a che punto può spingersi questa spirale quando nessuno interviene per spezzarla?
Adolescence non ci offre redenzione, né facili soluzioni. Ci lascia, invece, con una domanda che brucia come un marchio: cosa accade quando non ci occupiamo di qualcosa? Quando l’incomunicabilità di chi sei e cosa desideri diventa una cosmologia, un sistema di valori, una lente per interpretare e interagire con l’altro?
Gli spazi online non sono mere piattaforme virtuali; sono laboratori sociali dove si forgiano nuove concezioni dell’identità in un’epoca di atomizzazione e frammentazione comunitaria. In questo senso, le ideologie che vi proliferano non sono semplici distorsioni di realtà, ma risposte – per quanto disfunzionali – a vuoti istituzionali reali, a crisi di senso concrete e a bisogni emotivi insoddisfatti.
La storia di Jamie è lo specchio del tempo: non necessariamente la narrazione di un colpevole, ma il ritratto di un adolescente qualunque la cui identità viene plasmata nell’intersezione tra vulnerabilità individuale e fallimento collettivo.E l’ambiguità che la serie magistralmente mantiene ci costringe a chiederci: quanto delle nostre narrative sul “mostro” servano principalmente a distanziarci dal problema? Ma anche: e se l’incomunicabilità tra generazioni fosse essa stessa una forma di abbandono strutturale?
Adolescence non è semplicemente un’altra serie sulla violenza giovanile: è un bisturi che disseziona con precisione chirurgica un fenomeno sociale. E in un’epoca in cui questa dinamica si traduce in statistiche sempre più allarmanti – dal raddoppio degli omicidi di ragazze adolescenti all’ascesa di contenuti problematici online – indagarne le radici diventa qualcosa che ci riguarda, senza distinzioni.
La serie di Thorne e Graham rifiuta di patologizzare questo fenomeno, di relegarlo al territorio rassicurante dell’anomalia psichiatrica. Jamie non è un mostro emerso dal nulla, ma il prodotto di un’alchimia sociale ben precisa: l’incontro tra vulnerabilità e ideologia tossica, tra isolamento emotivo e comunità digitali che trasformano il disorientamento in dottrina. Una cartografia complessa le cui radici germogliano nel terreno dell’incapacità emotiva, in quel vuoto comunicativo che trasforma sentimenti legittimi – insicurezza, paura del rifiuto, desiderio di connessione – in risentimento codificato. I dogmi della manosphere diventano così una stampella concettuale, un modo per dare forma matematica a un dolore che non trova altre formule per esprimersi.
Ciò che distingue profondamente questa serie è che sono gli uomini stessi a guidare la conversazione. Thorne e Graham, insieme all’intero apparato creativo dietro Adolescence, assumono coraggiosamente la responsabilità di guardare negli abissi di questa dinamica sociale. Per troppo tempo, la responsabilità di affrontare la violenza e i suoi effetti è ricaduta sulle donne, un fardello paradossale che ha trasformato le survivor in educatrici forzate. Ecco perché abbiamo bisogno di più narrazioni come questa: la società offre agli adolescenti strumenti limitati per elaborare emozioni complesse e poi si stupisce quando questi cercano di lenire il dolore con ciò che viene loro offerto. Adolescence inverte questa logica, mostrandoci come la radicalizzazione non sia un mistero incomprensibile ma un processo tracciabile, un percorso fatto di micro-decisioni, di piccole abdicazioni, di semplificazioni seduttive.
Se continuiamo a trattare ogni episodio di violenza maschile come un evento isolato, come atti incomprensibili di persone altre da noi, finché continueremo a delegare l’educazione emotiva dei ragazzi agli algoritmi e ai forum anonimi, continueremo a perpetuare il mito dell’incomprensibilità, quando in realtà la violenza ha una genealogia che possiamo comprendere, tracciare e interrompere.