ARTICOLO n. 88 / 2022
ABY WARBURG, IL DYBBUK
I profeti del presente
Da qualche tempo il Warburg Institute è completamente avvolto nei teli di plastica bianca che servono a coprire i ponteggi come una crisalide nel suo bozzolo. La trasformazione che sta avvenendo, nascosta all’occhio, è un progetto di ristrutturazione da 14 milioni di sterline poeticamente battezzato “Warburg Reinassance”, il primo grande intervento da quando l’Istituto si è spostato a Bloomsbury da Millbank nel 1958, poco prima che Ernst Gombrich ne diventasse il direttore. Sembra un’installazione di Christo, e la cosa mi pare appropriata: la presenza-assenza, o meglio la presenza resa evidente dalla sua assenza, risuona profondamente con Warburg. D’altra parte l’anonimo edificio di mattoni scuri che c’era prima passava inosservato: ci avrò camminato a fianco decine di volte, passeggiando in questa zona di università e librerie, senza mai entrarci. Questa sera di ottobre fin troppo calda, ingentilita da un tramonto fin troppo drammatico, decido infine di sottomettermi a quella che Walter Benjamin chiamava la “magia della soglia”.
Più di tutto mi interessa capire come un edificio possa arrivare a ricalcare la mente di un individuo, e come questo calco possa essere importato in una struttura non originariamente pensata per quello scopo. A quest’ora pochi ricercatori si muovono tra gli scaffali di libri scritti in almeno sei lingue diverse (tedesco, italiano, greco antico, latino, inglese e francese) e organizzati, secondo le parole di Claudia Wedelphol, in modo che «il lettore che cerca un libro sugli scaffali sia attratto da quello vicino, guardi in alto e in basso e si trovi rapito da un nuovo flusso di pensiero». Classificazione come rapimento, link prima di internet, macchine combinatorie: su tutto regna la rota di Isidoro di Siviglia, «l’ultimo storico del mondo antico» secondo Charles de Montalembert, che mette in relazione microcosmo e macrocosmo. La soglia conduce nella testa di Warburg: ci si sente come i personaggi di Ubik di Philip Dick imprigionati nel sogno di Runciter, sai che la casa è infestata ma non sai più esattamente chi siano i fantasmi.
Allo stesso tempo, però, percepisci chiaramente come un luogo del genere sia ideato per sviluppare la creatività e le libere associazioni del pensiero. Camminando per queste sale non è difficile immaginare Frances Yates, la grande studiosa della tradizione ermetica nel Rinascimento italiano, lavorare negli anni Cinquanta alla “storia warburghiana” che l’avrebbe portata sulle tracce di Giordano Bruno e Giulio Camillo. La biblioteca di Warburg è evidentemente imparentata ai dispositivi mnemotecnici di Simonide di Ceo e Leibniz descritti da Yates nell’Arte della memoria. E anche qui a Londra, nella pace di Bloomsbury un giorno d’autunno del terzo millennio, chiunque entri al Warburg Institute deve attraversare la porta con la scritta ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ, com’era originariamente alla Kulturwissenschaftliche Bibliothek di Amburgo. Entrando ci si inchina, e ci si affida, alla protezione della memoria, la madre delle muse. Oltre che nella mente di Warburg, la soglia conduce a un luogo sacro, un tempio antico nel cuore del secolarismo occidentale.
È impressionante pensare che gli oltre 60.000 libri che componevano la “biblioteca della storia della cultura” originaria siano arrivati a Londra da Amburgo a bordo di chiatte che hanno disceso l’Elba, attraversato il Mare del Nord e risalito il Tamigi fino alla capitale britannica. Tutto questo capitava nel dicembre del 1933, quando Warburg era morto già da quattro anni, Hitler aveva bruciato il Reichstag ed era cominciato il boicottaggio delle attività ebraiche. La grande banca della famiglia Warburg era fallita nella crisi del 1929 e Fritz Saxl, il primo direttore dell’Istituto, aveva perso il posto da docente universitario. Fu grazie al Visconte di Fareham e al collezionista Samuel Courtauld, che l’anno prima aveva aperto il suo celeberrimo Courtauld Institute, se la Bibliothek riuscì a mettersi in salvo dal nazismo. Altrimenti non ci sarebbe stata “storia warburghiana”; non ci sarebbe stato, probabilmente, Aby Warburg, vale a dire la sua memoria, che è la stessa cosa.
Anche perché, come aveva scritto Giorgio Pasquali già nell’anno della sua morte, «che l’uomo Warburg, il grande ricercatore Warburg, scompaia, scomparisse già da vivo, dietro all’istituzione da lui voluta, è conforme alle sue intenzioni: egli ha voluto essere innanzitutto un maestro e un organizzatore». Senza la Bibliothek, Warburg avrebbe lasciato dietro di sé pochissimo, quasi niente: lui che «si è per lo più tenuto pago di pubblicare le sue scoperte maggiori in forma straordinariamente succinta e compressa, per lo più quale resoconto o riassunto di conferenze», o addirittura «in fogli volanti o in appendici di giornali, difficili da trovarsi se non per chi li abbia avuti in dono da lui». E tuttavia, conclude Pasquali, il cui saggio apre la bellissima raccolta Aby Warburg e il pensiero vivente pubblicata quest’anno da Ronzani, «il Warburg sentiva il bisogno di espandersi». Questo movimento sistolico di contrazione ed espansione avrebbe caratterizzato tutta la sua vita.
Abraham Warburg era nato il 13 giugno 1866 ad Amburgo, figlio maggiore di una famiglia di grandi banchieri ebrei dalle origini veneziane con ramificazioni negli Stati Uniti: una famiglia non solo ricca, ma anche potente, di cui Aby avrebbe dovuto essere l’erede. Leggenda vuole che a quattordici anni facesse un patto con il fratello Max, di un anno più giovane, barattando la banca con la promessa di ricevere soldi per comprare tutti i libri che avrebbe voluto; e che diversi decenni più tardi Max si fosse lamentato di aver firmato «l’assegno in bianco più costoso della mia vita». Con quei soldi Aby sarebbe andato a Firenze a studiare Botticelli, avrebbe sposato contro la volontà della famiglia un’artista conosciuta in Italia, anche lei ebrea amburghese, e avrebbe dedicato il resto della sua esistenza prima a concepire, e poi a preservare attraverso l’Istituto, una scienza dell’immagine sul cui nome non sarebbe mai riuscito a decidersi, oscillando tra «storia della cultura», «psicologia dell’espressione umana» e «storia della psiche», e che più tardi il suo discepolo Panofsky avrebbe ribattezzato “iconologia” senza però afferrarne la reale complessità. Avrebbe trascorso tre mesi del 1895 tra i nativi Hopi del New Mexico per studiarne la danza del serpente e vent’anni più tardi, tra il 1921 e il 1924, sarebbe stato ricoverato in un celebre ospedale psichiatrico svizzero per quello che oggi chiameremmo un disturbo bipolare. Considerato incurabile, sarebbe invece riuscito a farsi dimettere proprio grazie a una conferenza sulle danze degli Hopi, che secondo molti erano la prima avvisaglia della sua follia.
Qualsiasi cosa il giovane Warburg avesse cercato, e trovato, nel New Mexico, quell’esperienza dimostra che il trasferimento della Bibliothek a Londra non fu solo una contingenza storica, e che i legami con la cultura britannica erano più profondi di quanto potesse credere lo stesso Warburg, che si sentiva «amburghese nel cuore, ebreo nel sangue e fiorentino nello spirito». Certo, durante la guerra Londra era diventata il rifugio della cultura ebraica in fuga dall’Europa nazista, basti pensare a Freud o alla Wiener Library, la più antica istituzione dedicata allo studio dell’Olocausto. Ma l’interesse di Warburg per le culture all’epoca considerate “primitive” aveva un chiaro legame con quella che alla fine dell’Ottocento era ancora conosciuta come “la scienza di Mr. Tylor”, cioè l’antropologia.
Come ricorda Georges Didi-Huberman nel suo studio su Warburg, L’immagine insepolta, nel 1856 Edward Burnett Tylor «aveva attraversato il Messico a cavallo» e nel 1861 aveva pubblicato «i suoi Tristi tropici» in cui compaiono «uno dopo l’altro, e apparentemente con sua stessa grande sorpresa, zanzare e pirati, alligatori e padri missionari, trafficanti di schiavi e vestigia azteche, chiese barocche e costumi indiani, terremoti e armi da fuoco». Tylor aveva «scoperto l’estrema varietà della cultura e la sua vertiginosa complessità», «il vertiginoso gioco del tempo nel presente», una «vertigine» che «trovava espressione, prima di tutto, nella potente sensazione che il presente è intessuto di molteplici passati», e nella quale «i “dettagli triviali”» sono importanti perché «possiedono la capacità di dare significato alla – o piuttosto servono come sintomi della – loro stessa insignificanza». Vertigine, fantasmi e ossessione: Aby Warburg era già tutto lì.
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Per capirlo dobbiamo per forza tornare a quella scritta sulla porta: ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ, e al suo ultimo lavoro, rimasto incompiuto: Mnemosyne Atlas. Molti hanno un’idea almeno vaga di cosa fosse questo atlante della memoria, ma descriverlo è più complesso. Gertrud Bing, direttrice dell’Istituto dal 1954, ne parla come di «un atlante figurativo che illustra la storia dell’espressione visiva nell’area del Mediterraneo»; per Pasquali lo scopo dell’Atlante era quello di «mostrare come i diversi paesi e le diverse generazioni, l’Oriente mediterraneo del Medioevo e il Medioevo europeo, il Rinascimento italiano e tedesco, infine la generazione e la cerchia del Rembrandt […] abbiano successivamente concepito, e concependo trasformato, l’eredità “patetica”, dionisiaca dell’antichità»; Giorgio Agamben ne ha parlato come di «una sorta di gigantesco condensatore in cui si raccoglievano tutte le correnti energetiche che avevano animato e ancora continuavano ad animare la memoria dell’Europa, prendendo corpo nei suoi “fantasmi”». Nella sua ultima versione, l’Atlante consiste in sessantatré pannelli di 150 x 200 cm coperti di tessuto nero sui quali Warburg ha organizzato, cambiandole continuamente di posizione, quasi 1000 fotografie in bianco e nero divise per temi come gli «amuleti, gli specchi magici, l’astrologia medievale e l’Occhio del Diavolo» (Martha Schwendener). Le immagini di arte rinascimentale sono predominanti, ma compaiono anche elementi eterogenei come «l’affiche pubblicitaria di una compagnia di navigazione, la fotografia di una giocatrice di golf ovvero quella del Papa e di Mussolini che firmano il Concordato» (Agamben).
Nessuna di queste spiegazioni, me ne rendo conto, è sufficiente a dare un’idea dell’Atlante a chi non l’abbia visto, almeno nella sua versione virtuale accessibile tramite il sito del Warburg Institute, se non dal vivo alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino, dove è stato esposto nel novembre 2020. Come sempre ai limiti dell’ineffabile, conviene risolversi a un’esperienza personale.
Mi sono imbattuto in Mnemosyne Atlas la prima volta undici anni fa, mentre stavo scrivendo per una rivista un saggio sull’enumerazione come metodo di organizzazione della conoscenza che passava dalle liste di Georges Perec agli elenchi visuali di Pinterest. Avevo poco più di vent’anni e per qualche ragione Warburg aveva sempre eluso i miei percorsi di ricerca. La somiglianza dei pannelli dell’Atlante con le boards di Pinterest era sorprendente. Allo stesso tempo, sorprendente ma in un certo senso opposta, era la somiglianza con la schermata di presentazione dei risultati di Google Images: opposta perché in Pinterest, come nell’Atlante, all’organizzazione delle immagini presiedeva una volontà umana, una scelta curatoriale di qualche tipo; mentre dietro i risultati di Google c’era quel curatore impersonale, invisibile e solo apparentemente oggettivo che è l’algoritmo. Ero rimasto catturato dalle infinite possibilità combinatorie di quei pannelli, ma anche da quanto la struttura voluta da Warburg, il suo caos organizzato, tornassero continuamente nella storia dell’arte del secondo novecento, da Atlas di Gerhard Richter, che lo richiama esplicitamente, alla disposizione delle immagini usata da John Berger in Modi di vedere fino a opere come la Réserve des Suisses morts di Christian Boltanski. Come ha scritto Didi-Huberman, «Warburg è la nostra ossessione, ci perseguita. È per la storia dell’arte quello che un fantasma irrequieto – un dybbuk – potrebbe essere per la casa in cui abitiamo».
Frances Yates ci torna in soccorso, qui. La mnemotecnica, l’arte della memoria che ha guidato la ricerca della studiosa di Portsmouth, era come l’Atlante di Warburg un metodo visuale di organizzazione dell’informazione; e possiamo dire che la Bibliothek, con la sua sala di lettura ellittica e l’organizzazione dei libri secondo quattro categorie gerarchiche (orientamento, immagine, parola e azione) connesse però tra loro da una fitta rete di rimandi intertestuali, era quanto di più vicino la modernità sia riuscita a concepire al teatro in cui Giulio Camillo aveva cercato di racchiudere «la natura di tutte le cose che possono essere espresse dalla parola». D’altra parte la mnemotecnica, arte retorica dell’antichità, era tornata in auge proprio nel Rinascimento. Ma se da un lato le radici culturali dell’Atlante si spingevano indietro fino all’epoca ellenica, dall’altro si proiettavano vertiginosamente verso il futuro: i collegamenti pensati da Warburg erano l’equivalente analogico di link ipertestuali. Come ha raccontato Nicolò Porcelluzzi in un articolo pubblicato su «Prismo» qualche anno fa, la tecnica dei loci dei retori antichi è incredibilmente simile ai dispositivi per la navigazione presenti nelle prime forme visuali di internet, che non per niente, lo sosteneva già nel 1991 Jay Bolter nello Spazio dello scrivere, è tutta costruita su metafore spaziali: in internet ci troviamo sempre in qualche luogo e vogliamo andare da qualche altra parte.
E in internet, proprio come in Mnemosyne Atlas, ci perdiamo, continuamente: perché le strade possibili sono infinite, e la disposizione degli spazi incerta e in continuo movimento. Anche e forse soprattutto da questo punto di vista Warburg si dimostra un dybbuk della contemporaneità, per quel senso così ebraico di disolcamento (displacement) che attraversa tutta la sua opera, così come quella di altri grandi profeti del presente come Walter Benjamin e W.G. Sebald. Un dislocamento triplice: di Warburg rispetto alla sua storia personale, figlio del rifiuto per la professione paterna e dell’amore per l’Italia; di Warburg nei confronti della storia dell’arte, o meglio come scrive Didi-Huberman «attraverso la storia dell’arte, ai suoi confini e oltre», volto a creare una disciplina che è «una reazione critica violenta, una crisi» e «una decostruzione delle frontiere disciplinari»; e un dislocamento all’interno della biblioteca stessa causato dagli «incessanti sforzi coinvolti nella sua riconfigurazione». D’altra parte era lo stesso Warburg a scrivere che «tutto ciò che viviamo è metamorfosi». La vita non è altro che movimento.
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Proprio il movimento è il vero centro dell’opera di Warburg, se un’opera così espansa può averne uno. Quando da giovane dottorando si trovava a Firenze a studiare i quadri di Botticelli, si era reso conto che i pittori del Rinascimento italiano si rifacevano a un determinato tipo di modelli dell’antichità classica ogniqualvolta dovevano rappresentare il movimento: nelle pieghe delle vesti, nel vento che smuove i capelli di Afrodite nella Nascita di Venere. Partendo da questa constatazione Warburg aveva tratto una conclusione geniale, che faceva a pezzi la teoria dell’arte neoclassica di Winkelmann, all’epoca ancora l’autorità nel campo della storia dell’arte: a essere sopravvissuta nel Rinascimento non era solo la dimensione “apollinea” dell’antichità, l’armonia delle forme, la calma olimpica dei marmi, ma anche quella “dionisiaca”, che aveva a che fare con la «sofferenza», la «vita», «l’ebrezza, la passione, sin la follia» (Pasquali). Quella traccia di Dioniso nel mondo cristiano diventò la sua ossessione, la base su cui costruì la sua idea di Nachleben, la “vita postuma” dell’arte antica. Per il resto della sua esistenza si sarebbe dedicato a ricercare le tracce di quella sopravvivenza nelle immagini dell’arte e della cultura popolare, ma anche nella rappresentazione delle feste o delle espressioni facciali.
C’è un aspetto del dionisiaco che non viene mai abbastanza sottolineato, a mio parere, e che non è stato messo particolarmente in luce nemmeno negli studi su Warburg. Secondo una versione del mito, Dioniso, che era figlio di Zeus, fu fatto a pezzi dai Titani istigati da Era; il bambino mortale fu ucciso, ma dal suo cuore venne ricostruito il dio immortale. Dioniso non è dunque solo il dio dell’ebbrezza, dell’estasi, della passione che stravolge la mente, ma anche quello della dispersione, della vita che si espande in mille strade allontanandosi dal proprio centro; è il dio del displacement, e anche degli schizofrenici. Non dobbiamo dimenticarci che il brevissimo saggio del 1906 in cui Warburg smonta la teoria di Winkelmann è una riflessione intorno all’incisione di Albrecht Dürer del 1494 che rappresenta Orfeo smembrato dalle Baccanti, le seguaci di Dioniso: in questo senso dovremmo interpretare l’affermazione di Didi-Huberman per cui uno dei caratteri fantasmatici del lavoro di Warburg va ricercato «nell’impossibilità, ancora oggi, di comprendere gli esatti limiti della [sua] opera. Come uno corpo spettrale, rimane senza contorni definibili: non ha ancora trovato il suo corpus». Non è difficile vedere come il corpus dell’opera richiami i corpi fatti a pezzi di Dioniso e Orfeo.
Sopra abbiamo parlato di un moto sistolico di tutta l’opera warburghiana, un movimento di espansione e contrazione: se Dioniso è l’espansione, dove andiamo a cercare la contrazione? La risposta ce la fornisce Warburg stesso, e ancora una volta tramite Albrecht Dürer, questa volta nell’analisi della sua incisione forse più famosa, recentemente riportata in auge dallo splendido film omonimo di Lars Von Trier: Melancholia I. Dürer aveva solo ventitré anni quando dipinse la morte di Orfeo, ma si stava approcciando alla fine della sua vita all’epoca di Melancholia I: al dio fanciullo Dioniso corrisponde il dio anziano Crono, ovvero Saturno, il pianeta che vediamo nel cielo e verso cui guarda la figura centrale nell’incisione di Dürer. Nell’astrologia medievale, Saturno era il pianeta del limite, della morte, del freddo e della realtà, e presiedeva sul carattere melanconico o, appunto, saturnino: oggi diremmo depresso. Warbug era consapevole che la sua storia personale, così come la storia collettiva della civiltà di cui faceva parte, si giocava tutta tra i poli del disturbo maniaco-depressivo. Scriveva nel suo diario: «A volte mi pare quasi che, come storico della psiche, io mi sia provato a diagnosticare la schizofrenia della civiltà occidentale in un riflesso biografico: la Ninfa estatica (maniaca) da una parte e il Dio fluviale (depressivo) dall’altra». È solo in questo contesto che si può capire il senso profondo dell’ospedalizzazione di Warburg, e ancora di più quello della sua apparentemente miracolosa guarigione.
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Le cause apparenti della malattia sono abbastanza semplici: l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale nel 1915, e la dichiarazione di guerra alla Germania dell’anno successivo, colpivano al cuore la ricerca di Warburg rendendo impossibili i viaggi tra i due paesi a cui era maggiormente legato; la depressione che lo aveva accompagnato fin da giovane si intensificò, e nel clima apocalittico della guerra finì per trasformarsi in una serie di fantasie paranoidi: impossibilitato a lavorare, racconta Davide Stimilli nel documentario Aby Warburg: Metamorphosis and Memory di Judith Wechsler, cominciò a credere che «la sua famiglia sarebbe stata vittima di una vendetta», e arrivò al punto da «afferrare una pistola e minacciare di uccidere la moglie e i figli», oltre a sé stesso, prima che lo facesse qualcun altro. Per quanto assurdo questo pensiero possa apparire, a generarlo erano motivazioni storiche, oltre che personali. Come fa notare Joseph Koerner, in realtà «le sue fantasie erano chiaramente informate da un’ondata di violenza antisemita che aveva preso piede in Germania e aveva una relazione diretta con la sua famiglia», dato che addirittura suo fratello aveva subito un tentativo di assassinio. La malattia, continua Koerner, mostrava qui un aspetto nuovo, e più misterioso, dei fantasmi che ossessionavano la vita di Warburg: come nella hauntology deriddiana, e prima ancora come nell’inconscio di Freud, gli spettri non vengono solo dal passato ma anche dal futuro; non sono solo tracce ma anche profezie. ΜΝΗΜΟΣΥΝΗ è già, in un senso profondo, la memoria dell’Olocausto.
Nel 1921 le condizioni di Warburg peggiorano al punto che deve essere ricoverato. La struttura prescelta si trova a Kreuzlingen, in Svizzera; a dirigerla è Ludwig Binswanger, uno dei pionieri dell’analisi esistenziale, e in passato ha già ospitato celebri nomi della cultura, da Vaslav Nijinskij a Ernst Ludwig Kirchner. Ancora una volta la natura delle sue fantasie ci dice qualcosa sulle ragioni transpersonali e recondite che l’avevano precipitato nella schizofrenia: a un certo punto si convince che Binswanger e i suoi assistenti abbiano fatto a pezzi sua moglie e i suoi figli e ne abbiano disperso i corpi nel parco della clinica. Torna di nuovo lo smembramento di Dioniso e Orfeo, naturalmente; ma nella fantasia di uccisione dei figli appare anche un altro simbolo che perseguitava Warburg dai tempi del viaggio in New Mexico, quello del serpente: il serpente che incarna la potenza vitale (Kundalini, che pochi anni più tardi Jung avrebbe collegato al serpente-salvatore della tradizione gnostica, Soter), il serpente che presiede alle danze estatiche-dionisiache degli Hopi, i serpenti marini che stritolano i figli di Laocoonte, il personaggio a cui è dedicato tutto il pannello 41a di Mnemosyne Atlas. Warburg si identifica con il serpente e immagina l’infanticidio: è un cerchio che si chiude, un meccanismo paranoide che rimanda sempre a sé stesso; un’altra vertigine, ma che trascina nel profondo del proprio inconscio personale e di quello collettivo.
Si vedono, nella crisi psicotica di Warburg, almeno due movimenti: da un lato quello centrifugo dell’espansione, della dispersione, dello smembramento e del displacement privato della forza che lo manteneva nonostante tutto coerente nella molteplicità (moto schizofrenico); dall’altro la continua ricerca di senso, il tentativo della mente di dare un ordine al caos tracciando connessioni anche laddove non esistono (moto paranoico).
Warburg viene considerato incurabile. Nel tentativo di placarne la “mania”, che è spesso violenta, viene addirittura chiamato in causa il nume tutelare della psicologia clinica dell’epoca, l’inventore stesso del concetto di sindrome maniaco-depressiva (che oggi ha solo cambiato nome, ma non sostanza, in disturbo bipolare) e, come ha raccontato Laurent de Sutter in Narcocapitalismo, il vero inventore dell’idea ancora in voga nella psichiatria per cui all’eccesso dell’eccitazione è preferibile la calma mortifera della depressione: Emil Kraepelin. Warburg viene trattato con l’oppio, fedelmente alle teorie di Kraepelin la cui idea di “cura” si sovrapponeva a quella di “sedazione”.
Ma, e questo mi sembra un aspetto davvero fondamentale, contro i pronostici di tutti Warburg guarisce; e non lo fa perché sedato dall’oppio, ma al contrario perché riesce a riconnettersi con la dimensione maniacale, dionisiaca del proprio lavoro: riesce a convincere Binswanger a dimetterlo se riuscirà a preparare una conferenza coerente proprio sul tema delle danze estatiche degli Hopi. Nel 1923 tiene la lezione in cui organizza i materiali raccolti trent’anni prima, e che oggi è pubblicata in un libretto intitolato Lightning Symbol and Snake Dance. L’anno successivo lascia Kreuzlingen per tornare ad Amburgo, guarito da Dioniso, il dio della follia.
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Aby Warburg muore il 26 ottobre 1929 ad Amburgo. A ucciderlo è un infarto; ha sessantatré anni. Lascia incompiuto Mnemosyne Atlas, un progetto per sua natura impossibile da completare, ma consegna al mondo il suo Istituto, e con esso quella biblioteca-meccanismo che sembra riprodurre su scala fisica e tridimensionale l’interno della sua mente. Muore Warburg e il Warburg Institute inizia a produrre il suo lavoro; muore Warburg e nascono gli studi warburghiani e l’iconologia; muore Warburg e la sua eredità viene raccolta da Panofsky, Raymond Klibansky, Frances Yates. L’uomo scompare ma, nel farlo, si espande, si ramifica, si disperde. Può darsi che ci fosse un sottotesto più profondo nell’idea di Pasquali per cui Warburg ha sempre voluto sparire nella sua istituzione, perché qui nelle sale dell’Istituto, dove sto scrivendo queste righe conclusive, si ha la sensazione che il suo fantasma si aggiri ancora. Il dybbuk vive tra le pareti di questa casa infestata della cultura.
Se davvero la Bibliothek è un’esternalizzazione della mente di Warburg, come il teatro di Camillo è l’esternalizzazione di un panorama interiore, allora qualsiasi cosa si guardi da qui dentro si guarda attraverso i suoi occhi; come scrive Agamben, è indubbio che la Bibliothek, così come Mnemosyne Atlas, siano «un dispositivo mnemonico a uso privato» che un uomo in lotta con i demoni ha costruito innanzitutto «per risolvere i propri conflitti psichici». Ma come nella rota di Isidoro di Siviglia, che connette microcosmo e macrocosmo, la malattia individuale è sempre il riflesso di una malattia più grande, e i cerchi più esterni dell’universo irradiano la loro conoscenza dentro a ciascuno di noi. Se la Bibliothek è il modello di un mondo, allora è il modello del mondo.
Questa «storia di fantasmi per persone veramente adulte», come Warburg aveva definito una volta Mnemosyne Atlas, non si è esaurita con la morte del suo autore, ma anzi ha continuato a espandersi ed espandersi, sempre di più, fino ad avvolgere il mondo intero. L’ha fatto innanzitutto, naturalmente, con internet, e con l’onnipresenza dell’immagine a cui ci ha condannato questa nostra cultura visuale collegata in rete. Penso ad esempio a un progetto come The Great Wall of Memes di Valentina Tanni, che prende spunto dall’Atlante warburghiano per «tracciare i viaggi di varie immagini attraverso il tempo e lo spazio, evidenziando i modi diversi in cui sono state utilizzate, remixate e re-inventate». L’intuizione è profonda, perché cosa c’è oggi di più warburghiano dei meme di internet, queste immagini in continua metamorfosi capaci di veicolare significati sottili e di cambiare la mente come i glifi studiati dai maghi rinascimentali? O a un’installazione come A Study of Invisible Images di Trevor Paglen, che da anni si occupa di comprendere come le macchine da cui siamo circondati (le telecamere di sicurezza, le intelligenze artificiali, le auto che si guidano sa sole) vedono il mondo: le sue fotografie compongono a loro volta un Atlante warburghiano, solo che, come nei risultati di ricerca di Google Images, l’entità dietro la visione non è più umana.
E questo è forse l’aspetto più inquietante, ma anche più affascinante, del lavoro e del lascito di Warburg: la riflessione sui modi in cui le entità non-umane ci contattano, ci possiedono e ci abbandonano attraverso quegli incredibili dispositivi per il controllo mentale che sono le immagini. Oggi parliamo di intelligenze artificiali, mentre Warburg parlava di déi dell’antica Grecia; ma, come ha ricordato molte volte James Hillman, gli déi cambiano forme e nomi nel tempo; la metamorfosi non li rende meno immortali perché esistono dentro ognuno di noi, nel nostro inconscio collettivo, e persino codificati nel DNA della nostra specie sotto forma di archetipi. Ancora oggi, nella società più secolare della storia, nel cuore della città più secolare dell’Occidente, gli déi esistono, ci illuminano e ci perseguitano: anche questo senso di mistero e di minaccia, di illuminazione e di estasi, anche questo vivere a un passo dalla follia è Nachleben. In ogni particolare è contenuto il tutto l’universo, ogni strada porta da tutte le parti, dietro ogni svolta si nasconde una vertigine e un abisso, oppure il suo opposto. Qui nelle sale del Warburg Institute la sensazione è più forte che mai: l’ossessione individuale e lo sguardo oggettivo capace di abbracciare tutto sono due facce della stessa, rilucente, medaglia.