ARTICOLO n. 68 / 2024

ABORTO

La prima volta che ho accompagnato un’amica in consultorio per ricorrere a un contraccettivo di emergenza, la “pillola del giorno dopo”, era il 2004 e avevamo entrambe diciassette anni. Lei aveva avuto un rapporto sessuale con un ragazzo conosciuto da poco ma qualcosa era andato storto e il preservativo si era rotto. La mattina successiva l’accompagnai in ospedale, dove all’epoca il consultorio aveva sede, per parlare con un’operatrice e prendere la ricetta con cui acquistare il farmaco, evitando così di passare per il medico di famiglia. Ricordo lunghi tempi d’attesa, le occhiate cariche di ostilità e commiserazione – tipiche delle persone adulte quando giudicano la condotta delle ragazze – le domande che avevano il sapore di un interrogatorio, la ritrosia a consegnare una banale prescrizione.

Quest’episodio, risalente ormai a vent’anni fa, mi è tornato in mente spesso nelle ultime settimane. L’approvazione al disegno di legge per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) che legittima a livello nazionale la presenza delle associazioni antiabortiste nei consultori ha sollevato infatti una forte ondata di indignazione, in particolare da parte di chi osserva il tentativo di smantellare, un pezzetto alla volta, una legge importante come la 194, a cui nel 1978 si arrivò non senza conflitti e tentativi di mediazione. Nel viaggio che ci porta a ripercorrere i miti su cui si è costruita e sedimentata una certa idea di femminilità, dunque, non potevamo esimerci dall’affrontare il grande tema dell’aborto, la cui narrazione, ancora una volta, è funzionale a negare alle donne la possibilità di autodeterminarsi.

Nel volume L’aborto, le studiose Alessandra Gissi e Paola Stelliferi sottolineano come la legge che ha depenalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza sia stata costruita su una dicotomia: da una parte l’idea di maternità come scelta libera e gioiosa, dall’altra quella dell’aborto come decisione sofferta e traumatica. Se così non fosse, per intraprendere la procedura non sarebbe necessario sedersi a un tavolo con un’operatrice e analizzare le possibili soluzioni alternative (di natura economica, assistenziale, sociale ecc.) che permetterebbero di riconsiderare la scelta, né questa fase di anamnesi si concluderebbe con un “invito a soprassedere” per sette giorni allo scopo di riflettere bene sulla decisione da prendere. 

Come ha ricordato la giornalista Jennifer Guerra, le organizzazioni antiabortiste attraversano le corsie dei nostri ospedali e le stanze dei consultori almeno da una trentina d’anni, ma solo da qualche tempo hanno beneficiato di un solido appoggio istituzionale e di fondi pubblici a sostegno delle loro iniziative. A luglio 2023, per esempio, è stato istituito presso L’ospedale Sant’Orsola di Torino un accordo con il Movimento per la vita che ha portato all’apertura della “stanza per l’ascolto” salutata dall’Assessore alle politiche sociali della Regione Piemonte Maurizio Marrone come un passo importante, “soprattutto in questa stagione di preoccupante inverno demografico”.

Uno dei miti che è andato sedimentandosi intorno all’aborto è, infatti, l’idea che esso contribuisca al fenomeno della denatalità, colpevolizzando di fatto le donne che vorrebbero compiere una scelta legittima. La colpevolizzazione avviene da tempo e in molti modi. In Gendertech, Laura Tripaldi rispolvera un documentario del 1984 intitolato The silent scream. Il video si apre con un’immagine poco chiara, forse quella di un’ecografia in bianco e nero, mentre la voce narrante maschile afferma «possiamo riconoscere l‘agghiacciante grido silenzioso sulla faccia di questo bambino, che sta fronteggiando la sua imminente estinzione». Il filmato racconta l’aborto di un feto di dodici settimane e alterna fotogrammi in cui si mostrano procedure mediche invasive a spezzoni registrati nello studio del medico pro-life Bernard Nathanson, attore e regista della pellicola, che illustra l’anatomia del feto servendosi di gigantografie e modellini 3D. 

Nel suo libro, in cui si occupa di raccontare come le interfacce tecnologiche – dallo speculum alle app per monitorare il ciclo mestruale – abbiano contribuito a modificare non solo il rapporto delle donne con il proprio corpo ma anche quello con il potere che ne limita la libertà, Tripaldi sottolinea come l’ecografia abbia prodotto una rivoluzione epocale, svelando per la prima volta ciò che avviene dentro al corpo della gestante. Dal punto di vista di Nathanson e di molti antiabortisti, essa permette di rivelare «l’aborto dal punto di vista della vittima». 

A partire da questa posizione sono stati prodotti molti contenuti che cercano, da una parte, di fare “formazione” raccontando l’aborto come un omicidio, dall’altro di giudicare implicitamente ogni donna che vi ricorre. L’articolo pubblicato nel 2021 sul blog di Provita e Famiglia risponde perfettamente a questa funzione. «Non è ideologia. È qui: un embrione che diviene bambino» sono le parole con cui si apre un lungo pezzo in cui le immagini occupano la totalità dello spazio a disposizione. A quelle, oniriche, tratte da ecografie che mostrano cellule che si moltiplicano fino ad assumere poco per volta forme umane, seguono quelle dell’operazione chirurgica in cui feti ed embrioni vengono smembrati per mostrare da vicino quanto quelle ossa, quelle teste e quelle piccole mani assomiglino alle nostre.

Un’operazione analoga era stata compiuta molti anni prima, precisamente nel 1965, quando, sulla copertina della rivista Life, comparve un’immagine destinata a fare storia. Con il titolo Drama of life before birth (lo spettacolo della vita prima della nascita) il giornale accoglie un reportage del fotografo Lennart Nilsson, un lavoro che a suo dire lo impegna per più di dieci anni. Come ricorda la studiosa Alessandra Piontelli ne Il culto del feto, le foto mostravano, per la prima volta, la vita intrauterina dal concepimento alla formazione del feto. Ricorda Piontelli: «chiamandolo “bambino”, “neonato”, “vita” o “miracolo della vita”, Nilsson cambia di fatto la terminologia usata per descrivere la gravidanza. Anche l’utero diventa “grembo” o “ambiente” (…)». Queste parole in effetti non sono casuali: il fotografo aveva raccontato di aver ottenuto le immagini avvalendosi di strumenti sofisticatissimi, necessari per poter osservare il feto in utero, tuttavia si scoprì successivamente che le foto furono scattate impiegando feti abortiti o nati morti, messi in posa (per esempio con il pollice in bocca) in veri set cinematografici in grado, attraverso la giusta illuminazione, di dare l’idea che fluttuassero beati in ambienti onirici.

Le immagini su Life sono significative non solo perché ci fanno assistere, forse per la prima volta, a un’opera di mistificazione (impiegare feti abortiti e abbelliti per rimarcare il concetto di “miracolo della vita”) ma anche perché segnano il punto di svolta rispetto al rapporto tra gestante e concepito. La donna scompare dal discorso e, per estensione, anche i suoi diritti, la sua volontà, i suoi desideri. L’unica cosa che conta è “il miracolo della vita”.

La narrazione che porta a focalizzarsi esclusivamente sulla bellezza della vita che nasce – e quindi a biasimare tutte le donne che, nonostante ne abbiano la possibilità, rifiutano questa “chiamata” – non è l’unica strategia impiegata da chi vorrebbe limitare il diritto all’aborto. L’altra ha a che fare con le false informazioni che vengono veicolate al fine di scoraggiare chi vorrebbe ricorrervi. Non ci sono prove che l’interruzione di gravidanza aumenti il rischio di incorrere in un cancro al seno, né che sia correlata all’insorgere di malattie mentali, tuttavia questo genere di informazioni vengono ancora date per vere.

Se un rischio le donne che vogliono abortire lo corrono davvero, è quello che segnala la psicologa Federica Di Martino, attivista e fondatrice della community online “IVG. Ho abortito e sto benissimo”: la stigmatizzazione. Incappare in medici che si rifiutano di praticare l’intervento, essere costrette ad ascoltare il battito del feto, raccontare l’esperienza dell’aborto come un trauma le cui conseguenze dureranno per tutta la vita, descrivere chi vi ricorre come “poverine” o – anche peggio – come delle assassine in potenza sono strategie utili solo a impedire alle donne di autodeterminarsi. Come ricorda Di Martino in un’intervista: «l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato che l’aborto, laddove è reso accessibile dallo Stato, è un’esperienza positiva di benessere e di salute nella vita di una donna, anche se ad oggi in Italia rimane uno dei più grandi tabù».

Per cambiare la narrazione intorno all’aborto servono altre prospettive. Una è quella che propone Gabrielle Blair, designer, blogger e autrice di Eiaculate responsabilmente. Nel volume, diventato un bestseller nel giro di poco tempo, propone una chiave di lettura semplicissima e cioè «che il 99% degli aborti siano il risultato di una gravidanza indesiderata e che i responsabili di tutte le gravidanze indesiderate siano gli uomini». Prima di passare sotto la lente di ingrandimento il comportamento delle donne, pertanto, sarebbe opportuno osservare anche quello degli uomini: «la società ha addossato la responsabilità di prevenire le gravidanze al genere che è fertile ventiquattro ore al mese, anziché a quello che lo è ventiquattro ore al giorno». Quando si parla di aborto nessuna stigmatizzazione colpisce gli uomini semplicemente perché sembra che quel discorso non li riguardi. L’altra prospettiva, oggi particolarmente difficile da perseguire, dovrebbe andare al cuore della 194, che ancora interpreta l’aborto come “pratica sanitaria” quando in realtà è qualcosa di molto diverso: è una pratica di libertà e come tale andrebbe salvaguardata.

ARTICOLO n. 74 / 2024