ARTICOLO n. 37 / 2022

A PROPOSITO DI THE DROPOUT

Fortuna e menzogna nella Silicon Valley

Nel 2003 una prodigiosa diciannovenne americana lascia i suoi studi a Stanford e fonda una startup biomedica nella Silicon Valley che ha come ambiziosa missione quella di produrre analizzatori di sangue portatili che con una singola goccia di sangue permettano di diagnosticare precocemente numerose malattie, salvando molte vite e abbattendo drasticamente i costi delle spese sanitarie. L’azienda si chiama Theranos, dall’unione delle due parole therapy e diagnosis, l’analizzatore portatile viene battezzato Edison, e la ragazza è Elizabeth Holmes. In una dozzina di anni la sua fondatrice finisce sulla copertina della rivista Forbes che la nomina la più giovane miliardaria self-made del paese, fa raggiungere alla Theranos un valore di mercato di 9 miliardi di dollari e un capitale stimato di circa 4,5 miliardi di dollari, conquista una impeccabile galleria di nomi tra sostenitori, dipendenti, investitori e membri del consiglio di amministrazione della startup che includono gli ex segretari di Stato Henry Kissinger e George P. Shultz, e strappa un accordo con la catena di farmacie Walgreens e uno con la catena di supermercati Safeway per aprire nei loro punti vendita postazioni Theranos dove effettuare analisi del sangue a soli 2 dollari e 99 centesimi (di fatto ne verranno attivate una quarantina nelle farmacie Walgreens). Poi nell’ottobre del 2015 entra in scena John Carreyrou, ottimo giornalista investigativo del Wall Street Journal, che con un articolo fa crollare il castello di carte rivelando al mondo quello che molti ex dipendenti della Theranos sanno già: gli esami effettuati dalla Theranos vengono per la più parte fatti utilizzando macchine Siemens, una singola goccia di sangue non è sufficiente e dunque il sangue viene diluito con acqua compromettendo i risultati, la macchina Edison sembra il progetto di scienze di uno studente di terza media e soprattutto: non funziona. I laboratori della Theranos vengono ispezionati, le accuse di Carreyrou vengono confermate, l’azienda viene messa sotto indagine, Holmes e il suo socio e compagno di vita, Ramesh “Sunny” Balwani (anche ex direttore generale e operativo della Theranos), finiscono sotto processo. 

Sulla vicenda John Carreyrou scrive e pubblica un libro (Una sola goccia di sangue. Segreti e bugie di una startup nella Silicon Valley, Mondadori 2019) i cui diritti vengono opzionati per farne un film prodotto da Apple TV, diretto da Adam McKay  (il regista di Don’t Look Up) e interpretato da Jennifer Lawrence (il film si chiamerà Bad Blood e attualmente è in preproduzione), il regista Alex Gibney realizza un documentario per HBO (The Inventor: Out for Blood in Silicon Valley), ABC produce il podcast creato e diretto dalla giornalista Rebecca Jarvis The Dropout, da cui viene tratta l’omonima miniserie creata da Elizabeth Meriwether e interpreta da Amanda Seyfried. La miniserie è in otto episodi ed è in streaming in Italia su Disney+ dallo scorso 20 aprile, quasi in contemporanea con la chiusura del processo a Elizabeth Holmes che a marzo l’ha condannata per quattro degli undici capi di imputazione (in sostanza è stata condannata per i reati di frode nei confronti degli investitori, mentre è stata assolta per quelli di frode nei confronti dei pazienti). 

Nel frattempo, fuori e dentro la Silicon Valley, c’è chi continua ad attaccarla (alcune imprenditrici della Silicon Valley hanno dichiarato recentemente di avere cambiato colore di capelli passando dal biondo a qualunque altra cosa per prendere distanza da Elizabeth Holmes), c’è chi la difende a oltranza (tra questi c’è il regista Errol Morris, che nel 2015 su propria iniziativa e affascinato da Holmes e dalla sua impresa ha girato alcuni spot promozionali della Theranos – sono visionabili su YouTube – e da allora non ha mai cambiato idea), e c’è chi semplicemente non capisce come una vicenda del genere sia potuta succedere. 

La cosa più immediata che verrebbe da dire è che dopo avere avviato la sua startup a diciannove anni,Holmes è rimasta in qualche modo intrappolata in quell’età, in quella post-adolescenza in cui non si è ancora persa l’abitudine di mentire agli adulti, genitori o insegnanti che siano. In cui le probabilità di farla franca con una menzogna sono così alte che vale sempre e comunque la pena di correre il rischio.In cui mentire in sé è eccitante, ti fa sentire potente, forse migliore degli altri, sicuramente speciale perché, anche se omologato in tutto, hai un segreto che gli altri non sanno. In cui non possiamo darle torto quando dice che, considerato il costo delle università in America (e la prassi delle stesse università di fare indebitare i propri studenti in cambio di una carriera scolastica che non garantisce un lavoro sicuro), preferisce investire quei soldi in una start-up e fare qualcosa per il bene dell’umanità. Non è un caso che uno dei momenti più riusciti dell’interpretazione che fa Amanda Seyfried di Elizabeth Holmes nella miniserie The Dropout è un remake di un’intervista video fatta da Errol Morris a Elizabeth Holmes in cui le viene domandato se può rivelarci un segreto. Holmes (e Seyfried dopo di lei) guarda dritto in camera, gli occhi spalancati e di un azzurro quasi marziano, il dolcevita nero indossato come una divisa per imitare il suo eroe inarrivabile Steve Jobs, ci pensa un po’ e alla fine dice: non ho molti segreti. Va da sé che non sapremo mai cosa le passa in quel momento per la testa. 

Nel frattempo Holmes si è sposata con un certo Billy Evans, di una decina di anni più giovane di lei ed erede del gruppo Evans Hotel (una catena di alberghi nella California del Sud), i due hanno avuto un figlio (è nato nel luglio del 2021 e si chiama William come il padre), abitano tutti nella Silicon Valley, in una tenuta di una trentina di ettari e del valore di 135 milioni di dollari a Woodside, in California. Concluso il processo aspetta la sentenza definitiva e la conseguente pena, che arriverà il prossimo 26 settembre e che prevede un massimo di vent’anni di prigione. 

Una teoria interessante che, seppur non giustificando, spiegherebbe almeno in parte le azioni di Holmes, ce la fornisce Dan Ariely, psicologo ed economista comportamentale israeliano-americano (insegna alla Duke University) che Alex Gibney ha intervistato nel suo documentario. Autore del libro The (Honest) Truth About Dishonesty: How We Lie To Everyone – Especially Ourselves (Harper 2012), a un certo punto del documentario Ariely cita un esperimento condotto da lui e dai suoi colleghi con un dado. Ai partecipanti veniva chiesto di scegliere mentalmente tra il lato basso e quello alto del dado, tirare il dado e a quel punto dichiarare la scelta ottenendo una ricompensa in denaro corrispondente al numero corrispondente al lato scelto (alto o basso). Per esempio: se il dado cadeva con il 4 in alto e il partecipante dichiarava di avere scelto l’alto, riceveva 4 dollari. A fine esperimento quasi tutti partecipanti risultavano avere scelto il lato più remunerativo. Fortuna o menzogna: impossibile a dirsi. Ripetendo lo stesso esperimento con l’aggiunta di una macchina della verità, si era capito che mentivano. Ripetendo una terza volta lo stesso esperimento con la macchina della verità e informando i partecipanti che la somma ricevuta sarebbe andata in beneficenza, la macchina della verità non era più in grado di intercettare quell’esitazione che di solito accompagna la bugia. Di fatto quanto succedeva era questo: i partecipanti erano talmente convinti che il fine giustificasse il mezzo da mentire con più determinazione, impedendo così alla macchina della verità di funzionare. A detta di Ariely qualcosa del genere deve essere scattato nella mente di Holmes, facendo scomparire del tutto il mezzo a beneficio del fine. E oltre che nella sua testa, deve essere successo anche in quella di dipendenti, investitori, membri del consiglio, e varia umanità coinvolta nella startup a un certo punto dei suoi dodici anni di vita. 

Un’altra teoria vuole Holmes tra le fila degli inventori che nei secoli hanno fallito, e anche mentito, prima di arrivare alla scoperta che avrebbe cambiato non solo la vita ma anche il futuro dell’umanità. Facendo proprio lo slogan «Fake it until you make it» (fingi fino a quando non ci riesci), Holmes avrebbe semplicemente continuato a sperare che la magica macchina in grado di fare le analisi del sangue a partire da una sola goccia di sangue funzionasse. E insieme a lei dipendenti, finanziatori, membri del consiglio di amministrazione, tutti uniti in una sorta di tacito patto dal quale ci si poteva sottrarre dimettendosi previa firma di un accordo di non divulgazione. Se le ragioni dei quindici anni di menzogne di Holmes si fermano allo stato di ipotesi, le decide e decine di accordi di non divulgazione firmati da ex dipendenti licenziati o andati via di propria volontà è sicuramente il motivo per cui il sistema non sia imploso prima: nessuno ha parlato perché legalmente nessuno era nelle condizioni di farlo. 

Uno degli aspetti più interessanti della vicenda è che la popolarità di Holmes sembra non essere stata minimamente scalfita dalle vicende giudiziarie, al punto che fan e seguaci dell’imprenditrice acquistano su eBay pezzi dell’azienda come fosse merchandising di una qualunque celebrità. Il valore di mercato degli oggetti va dai 150 dollari per un set di cinque penne con marchio Theranos ai 1500 dollari per una bottiglia d’acqua sempre con marchio Theranos (di quelle di plastica distribuite durante le conferenze per pubblicizzare l’azienda) agli 11mila dollari per un camice da laboratorio Theranos autentico e mai indossato. A venderli sono gli stessi ex dipendenti (per arrotondare si presume) che nel crollo dell’azienda hanno perso il lavoro e i guadagni generati dalle stock options. «La ragazza dal dolcevita nero che ha mollato il college e ha ingannato Henry Kissinger è diventata un’ossessione culturale», dice uno di loro. Ed è vero.

Ma ecco cosa succede a questo punto: sei lì che continui a digitare su Google Elizabeth Holmes, in cerca di qualcosa che non sai, culturalmente ossessionata anche tu. Ed ecco che prima uno, poi due, poi una discreta serie di articoli su giornali autorevoli ti spingono a guardare Inventing Anna, la miniserie sulla falsa ereditiera Anna Delvey Sorokin che ha ingannato dirigenti di banca, investitori e quant’altro, e WeCrashed, l’altra miniserie su ascesa e caduta della startup WeWork e l’improbabile coppia che l’ha inventata, e Bad Vegan, e così via fino all’unica conclusione possibile: nessuno è un caso isolato.

ARTICOLO n. 96 / 2024