ARTICOLO n. 67 / 2025
DON DELILLO E IL BASEBALL
Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato. Trovi tutti gli articoli della serie qui.
Il 3 ottobre 1951 Don DeLillo ha quindici anni e si trova dal suo dentista di fiducia, nel Bronx. In quelle stesse ore, al Polo Grounds di New York, Bobby Thomson batte il fuoricampo che regala la vittoria del campionato ai New York Giants contro i Brooklyn Dodgers e il governo americano annuncia che l’Unione Sovietica ha testato con successo la bomba atomica. DeLillo apprende le vicende dalla radio del dottor Fish. E tenta di abbozzare un sorriso seppur con i ferri in bocca. L’indomani, la prima pagina del New York Times è divisa in un doppio taglio alto che dà la stessa rilevanza alle due notizie.
Circa quarant’anni dopo, Don DeLillo collega di nuovo i due eventi e inizia a lavorare alla novella Pafko at the Wall – Andy Pafko è l’esterno sinistro dei Dodgers che vede “The shot heard ‘round the world” di Thomson da una prospettiva privilegiata. Il racconto si sviluppa lungo le tre ore della partita, intrecciando la voce radiofonica di Russ Hodges, le osservazioni del giovane afroamericano Cotter Martin e la presenza di figure come il direttore dell’FBI J. Edgar Hoover e icone culturali del calibro di Frank Sinatra e Jackie Gleason, che erano davvero seduti tra il pubblico quel giorno. È una radiografia del mito americano osservato nel suo momento di massima intensità. La novella viene pubblicata su Harper’s Magazine nel 1992 e successivamente diventa Il trionfo della morte, il prologo di Underworld.
Nel romanzo, la palla colpita da Thomson attraversa il cielo come un presagio e finisce nelle mani di Cotter Martin. Da quel momento, l’oggetto – che nella realtà è andato perso per sempre – assume il ruolo di una reliquia pagana: passa di mano in mano, segna destini, incrocia traiettorie esistenziali, attraversa diversi decenni e diverse classi sociali, fino ad arrivare a Nick Shay, il protagonista. La palla, come l’America stessa, è un oggetto carico di storia, desiderio e rimozione.
Nel secondo dopoguerra, il baseball consolida il proprio statuto di sport nazionale e il governo statunitense lo utilizza come strumento di soft power e coesione ideologica. La stampa lo rende emblema della supremazia culturale statunitense, e la retorica istituzionale lo sfrutta come strumento pedagogico e patriottico. La propaganda lo esalta come espressione della democrazia americana, incoraggiando i genitori a iscrivere i figli alla lega locale per tenerli sulla retta via. Il baseball, in questo contesto, funge anche da antidoto alla minaccia comunista. Come dimostrano molte narrazioni giornalistiche del tempo, il baseball diventa metafora della superiorità culturale americana: un’esibizione di libertà regolata, capace di estendersi fino a giustificare una presunta superiorità ideologica.
Non è un caso che molti dei grandi romanzieri americani abbiano scritto di questo sport nazionale. Nella narrativa americana del Novecento, il baseball diventa un topos che racconta l’ambizione, la caduta, l’iniziazione, la memoria. Il baseball incarna un’idea di democrazia: ogni giocatore ha il proprio turno, ogni base rappresenta una tappa di avanzamento, ogni gesto è regolato da un’etica di precisione. È una rappresentazione plastica del sogno americano. Il tempo rarefatto della partita, l’ossessione statistica, l’idea di un ritorno ciclico alla casa-base: tutto nel baseball si presta a raccontare le contraddizioni del capitalismo, la tensione tra ordine e caos, tra competizione e nostalgia.
Intervistato nel 2000, poco dopo il suo trasferimento a Manhattan, Salam Rushdie si è soffermato anche sulla sua vita sociale e delle sue frequentazioni con gli scrittori americani. Nell’intervista racconta di essere stato a cena con Thomas Pynchon che gli ha parlato tutto il tempo di baseball, e di essere andato a vedere i Mets con Paul Auster e gli Yankees con Don DeLillo, aggiungendo un aneddoto sullo scrittore di origini italiane: a detta di Rushdie, DeLillo si reca allo stadio munito di guantone, per afferrare le battute che gli capitano sotto tiro e vivere l’esperienza completa del tifoso medio. Non sono riuscito a trovare da nessuna parte un riscontro su questo dettaglio. Su internet si trova solo una foto ormai nota di Don DeLillo e Paul Auster allo Yankee Stadium durante una partita. Le mani di DeLillo non sono visibili e mi piace pensare che indossasse un guantone in quell’occasione. Non lo sapremo mai. Lo stesso Paul Auster ha confermato la loro ossessione per il baseball, raccontando di come lui, Don DeLillo e Philip Roth si incontrassero volentieri a cena per parlare del loro sport preferito e non di letteratura.
Philip Roth utilizza il baseball come strumento per indagare la virilità, l’agonismo e la memoria collettiva americana. In Portnoy‘s Complaint, l’esterno-centro diventa figura ideale di un’innocenza perduta e di un machismo che ne rivela tutta l’ansia nevrotica. «Oh, l’imperturbabile nonchalance di quel gioco! Non esiste un solo movimento che non conosca, ancor oggi, fin giù nel tessuto dei miei muscoli e nelle giunture delle mie ossa. […] Ah, se potessi essere un esterno-centro, e nulla più!» afferma Portnoy. In The Great American Novel, invece, Roth costruisce una parodia surreale della cultura americana attraverso la Patriot League, una fantomatica lega di baseball. Il romanzo trasforma l’epica sportiva in farsa, raccontando il tramonto di un immaginario collettivo fondato su eroismo, gloria e patriottismo. La storia del baseball, emblema dell’identità nazionale, diventa così il teatro grottesco del suo stesso disfacimento.
Tuttavia, tra i tre, è Paul Auster quello che più di tutti voleva diventare un giocatore professionista. Ha raccontato di non essersi interessato alla letteratura finché aveva senso coltivare il grande sogno della sua adolescenza: giocare nella major-league. Il baseball infine si è riversato in tantissime sue pagine con un tono lirico e come simbolo di solitudine metafisica. Anche la sua metamorfosi in scrittore è legata al baseball. Nel saggio Why Write? è l’autore stesso a raccontare il doloroso aneddoto. Quando ha otto anni i suoi genitori lo portano a vedere i Giants contro i Milwaukee Braves e al termine della partita incontra il suo idolo Willie Mayes, a cui chiede un autografo. Poiché nessuno ha qualcosa con cui scrivere, è costretto a rinunciare. Auster racconta di aver pianto tutto il giorno e che da allora iniziò a portare sempre con sé una matita e un taccuino. Diversi anni dopo, un vicino di casa di Mayes intercettò questa storia e Auster ottenne finalmente il suo autografo. Auster e Mayes sono morti a distanza di poche settimane nel 2024.
Per DeLillo, il baseball è un palcoscenico in cui si esibisce l’ansia collettiva, l’illusione del controllo e lo spettro della morte. Nei suoi romanzi, non vi è redenzione nel gesto atletico, ma il gesto stesso diventa carico di ideologia, estetizzazione e trauma. In Underworld, il baseball incarna una dialettica profonda tra aura e decomposizione: è simultaneamente sacro e rifiuto.
In Pafko at the wall, la palla da baseball – l’oggetto più importante dello sport nazionale per eccellenza – diventa icona dell’illusione auratica: una religione civile che incornicia le tensioni razziali e politiche dell’America degli anni Cinquanta, e le disinnesca nel mito. La novella evoca l’innocenza perduta della cultura americana per metterne in discussione i presupposti ideologici: il conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, la segregazione razziale, l’autoritarismo strisciante della Guerra Fredda durante la seconda metà del secolo.
A proposito di religione civile, nei suoi diari John Cheever scrive «Il baseball è come un sacramento, bisognerebbe accogliere tutti indistintamente» e poi, qualche pagina più avanti, aggiunge: «Penso che il compito di uno scrittore americano non sia di descrivere gli scrupoli di una donna colta in adulterio mentre guarda la pioggia fuori dalla finestra, ma di descrivere quattrocento persone sotto le luci di uno stadio che cercano di toccare una palla finita fuori campo. Questo è un rito. L’arbitro in abiti clericali, che passa al vaglio l’anima dei giocatori; il rombo attutito di diecimila persone che, alla fine dell’ottavo, si dirigono verso le uscite. Il senso di giudizio morale incarnato in questa vastità migratoria».
Quando DeLillo scrive di sport si trovano anche tracce della crisi della mascolinità americana. Molti dei suoi personaggi maschili – il seducente David Bell di Americana, il malinconico Lee Harvey Oswald di Libra, fino al miliardario suicida Eric Packer di Cosmopolis – vivono la mascolinità come performance instabile, oscillando tra l’adesione a modelli obsoleti e il desiderio di sottrarvisi, cercando rifugio nella ritualità. In Game 6, film scritto da DeLillo nel 2005 e diretto da Michael Hoffman, con Michael Keaton e Robert Downey Jr., il baseball diventa lo sfondo psichico della crisi di un drammaturgo ossessionato dai Red Sox. Ancora in Americana, David Bell gioca a tennis come gesto narcisistico e competitivo al limite della caricatura; in End Zone, il protagonista Gary Harkness è uno studente universitario e il running back di successo della squadra del proprio college, tuttavia trascorre le sue giornate accarezzando il brivido dell’olocausto nucleare come forma di liberazione dalle proprie pulsioni umane.
Del resto per DeLillo l’identità personale si dissolve sempre nel flusso collettivo della storia e nell’inerzia dei consumi. In Mao II, il romanzo si apre con un matrimonio di massa allo Yankee Stadium: una celebrazione che lo scrittore americano trasforma a più riprese in studio sulla folla e sul culto. In tal senso, la cornice pagana assume una funzione precisa: è il tentativo di ordinare il caos mediante la regola. DeLillo è straordinario nella rappresentazione delle masse: ne coglie la tensione tra spiritualità e isteria, tra rituale e ripetizione. La folla cerca l’estasi, e trova soltanto la sua replica. Così, nel cuore del gioco, quella palla che gira – residuo di un ordine possibile – diventa il nostro piccolo sacramento: un oggetto che ci permette di non guardare la morte, pur tenendola tra le mani. E così, noi spettatori teniamo lo sguardo fisso sul campo da gioco ore e ore, per contenere il panico. Ci sentiamo al sicuro, in un punto qualsiasi ai margini della coreografia.