ARTICOLO n. 45 / 2025
TETTE
l'anatomia di uno sguardo
L’immagine sulla copertina di uno dei libri più importanti per la mia formazione è un frame tratto da un film del 1933, Ecstasy. Una giovane donna si lascia trasportare lentamente dalla corrente di un fiume, completamente nuda. Il suo seno emerge, ben evidente agli occhi di chi guarda. Quella donna è Hedy Lamarr, che all’epoca si chiamava ancora Hedy Kiesler. Aveva diciotto anni ed era destinata a diventare una delle attrici più affascinanti di Hollywood — e, più tardi, una scienziata pioniera della tecnologia delle comunicazioni. Era bastata la partecipazione a questo film — e in particolare a due scene: quella del bagno nel fiume e quella in cui il suo personaggio simula un orgasmo — per rovinarsi la reputazione e compromettere la sua carriera. Scene che, tra l’altro, non furono pienamente consensuali, dato che il regista le aveva assicurato che non si sarebbe visto nulla.
Sono passati quasi cento anni, e il seno femminile continua a essere percepito come qualcosa da gestire con cautela. Alla donne viene chiesto di mostrarlo, senza ostentarlo; di coprirlo, ma senza cancellare ciò che rappresenta. È proprio da qui — dal paradosso di un corpo tanto visibile quanto vigilato — che prosegue la nostra riflessione attorno ai miti che hanno contribuito a sedimentare una certa idea di femminilità.
Se guardiamo indietro nel tempo ci rendiamo conto che ciò che oggi diamo per scontato in passato non lo era affatto. Per esempio, se chiedessi a una persona nata negli anni Ottanta di immaginare una donna provocante è probabile che il suo pensiero corra a Jessica Rabbit, la procace moglie del coniglio Roger, che il regista Robert Zemeckis e i suoi sceneggiatori hanno rappresentato con un seno esplosivo e gambe lunghissime. Il film è del 1988, ma ambientato alla fine degli anni Quaranta— un dettaglio non secondario. All’epoca, infatti, erano proprio le gambe l’elemento più erotizzato del corpo femminile. Le gambe, più delle curve del petto, facevano immaginare, desiderare, trasgredire gli spettatori.
Come ricorda la scrittrice Sarah Thornton nel volume Tette, «tra il 1942 e il 1951 Betty Grable è stata l’attrice più pagata d’America (…) così celebrata per le sue gambe che la 20th Century Fox le ha assicurate per un milione di dollari». Ma qualcosa cambia negli anni Cinquanta, quando il seno inizia a guadagnare centralità nell’immaginario erotico. È in questo contesto che esce una commedia destinata a diventare un film cult: Gli uomini preferiscono le bionde. Nella locandina promozionale, Tony Curtis e Jack Lemmon — travestiti da Josephine e Daphne — sorreggono Marilyn Monroe, che strizza l’occhio verso la camera. La composizione dell’immagine è precisa: i seni di Marilyn sono esattamente all’altezza degli occhi dei due attori. Una scelta tutt’altro che casuale. Quel fotogramma fissa una nuova gerarchia visiva: lo sguardo maschile si allinea con il petto, non più con il volto.
Questa progressiva centralità del seno non avviene per caso. Negli stessi anni, il latte artificiale comincia a comparire sugli scaffali dei negozi e a ricevere l’approvazione di pediatri e riviste specializzate. Il seno, svuotato della sua funzione primaria di nutrimento, diventa sempre più disponibile come oggetto sessuale. Thornton osserva che «la gerarchia sociale legata al latte artificiale riflette la stratificazione sociale associata alla sessualizzazione del seno». Il corpo non è mai neutro, nemmeno nel desiderio. Secondo il rapporto Kinsey, alla fine degli anni Quaranta quasi l’88% degli uomini con un’istruzione universitaria dichiarava di entrare in contatto con il seno della partner durante il rapporto sessuale, contro appena il 33% degli uomini senza diploma. Ciò suggerisce che anche l’erotizzazione del seno non è un fatto universale né istintivo, ma un comportamento appreso, mediato dal contesto culturale, economico e formativo di riferimento.
A partire dalla seconda meta del XX secolo, il mondo occidentale ha cercato di trasformare l’ossessione americana per i seni grandi in una sorta di norma globale, quasi fosse una legge di natura. Attraverso il cinema, la pubblicità e il porno, si è consolidata l’idea che il seno debba essere tondo, sodo, abbondante — un tratto desiderabile a prescindere da contesto, cultura, storia personale. Tuttavia, questa estetica non ha attecchito ovunque. Al di fuori dell’Occidente, l’erotizzazione del seno segue percorsi diversi, a volte marginali, a volte del tutto assenti. In molte culture asiatiche, per esempio, l’attenzione si concentra su altri elementi del corpo: la nuca, le mani, la pelle. Lo stesso vale per alcune popolazioni dell’America Latina. Il fatto che in certi ambienti si possa camminare a petto nudo senza che ciò generi scandalo ci ricorda che il legame tra seno e sessualità non è affatto universale, ma culturale — e quindi modificabile.
Nonostante l’ossessione visiva che circonda il seno femminile nella cultura occidentale, mostrarlo apertamente continua a essere un gesto controverso, spesso censurato, quasi mai neutro. Nel 2013, Facebook ha rimosso alcune immagini tratte dal documentario Free the Nipple, diretto dall’attrice e attivista Lina Esco. L’intervento ha generato proteste immediate e reso virale l’hashtag omonimo, presto adottato da studenti e studentesse dei campus universitari americani e sostenuto da celebrity come Rihanna e Miley Cyrus. Le manifestazioni hanno indubbiamente contribuito a sollevare un problema che va oltre la semplice visibilità: il modo in cui il corpo femminile viene codificato, sorvegliato, tradotto in norme estetiche e morali. In questa stessa direzione, l’artista Micol Hebron ha ideato un progetto tanto semplice quanto efficace: ha fotografato capezzoli maschili, li ha trasformati in adesivi digitali e li ha resi disponibili come “pasties” da sovrapporre ai capezzoli femminili nelle immagini, in modo da aggirare la censura delle piattaforme. L’operazione, ironica e politica allo stesso tempo, ha messo in evidenza l’assurdità di una distinzione normativa basata su pochi centimetri di pelle. Il messaggio era chiaro: non è il capezzolo in sé a scandalizzare, ma il genere del corpo a cui è attaccato.
Questa sorveglianza visiva è accompagnata da una forma più sottile ma altrettanto pervasiva di censura linguistica. Se Kate Lister, nel suo volume Sesso, ha raccolto centinaia di espressioni gergali usate nei secoli per riferirsi agli organi genitali o alle pratiche sessuali, Sarah Thornton fa notare come, quando si parla di seno, il lessico si impoverisca drammaticamente. In inglese si oscilla tra boobs, tits, rack, più variazioni sul tono che sul significato. E la situazione peggiora se ci si sposta ancora più nel dettaglio. Non esistono infatti sinonimi per indicare i capezzoli, a meno che non ci si addentri nel linguaggio tecnico del mondo della moda e della lingerie, dove i produttori li chiamano semplicemente “apici”. Il termine serve anche a spiegare il senso stesso dei reggiseni, che nascono infatti per contenere, modellare, e soprattutto velare gli apici, mantenendoli invisibili sotto i vestiti. Ciononostante, negli anni, alcune artiste hanno consapevolmente ribaltato questa logica. Madonna, per esempio, con i suoi celebri reggiseni conici disegnati da Jean Paul Gaultier, ha trasformato lo strumento di contenimento in un dispositivo funzionale a metterli in evidenza: i capezzoli, anziché sparire, venivano messi in scena, resi arma estetica e dichiarazione d’intenti.
In italiano la situazione non è molto diversa: il termine colloquiale “tette” (o “bocce”, nelle sue infinite varianti dialettali) si alterna a quello più medico, neutro e distante di “seno”. Ciò in qualche modo conferma, piuttosto che risolvere, l’ambivalenza culturale che ancora grava su questa parte del corpo: troppo erotizzata per essere normale, troppo normale per essere davvero libera.
Nonostante il tentativo di rimozione, contenimento e sorveglianza dei capezzoli — visiva, linguistica, simbolica — c’è chi ha scelto di riportarli al centro del discorso. I capezzoli sono magici è il titolo di un capitolo del volume Pleasure Activism, curato da adrienne maree brown. Qui, l’autrice racconta in prima persona la scoperta del proprio piacere, l’importanza di riconoscere i capezzoli come fonte di connessione, energia, desiderio. Ma non si tratta solo di esperienza individuale: per brown, il piacere è una pratica politica, un diritto radicale, soprattutto per chi vive nei margini della società — persone nere, queer, trans, disabili. Il corpo, scrive, è un archivio di storie, ferite e trasformazioni. Rivendicarlo, toccarlo, celebrarlo significa sottrarlo alla logica del controllo e restituirlo alla possibilità. I capezzoli — che la cultura dominante vuole o nascosti o sessualmente disponibili — diventano, nel suo discorso, portali di consapevolezza e libertà. Mostrarsi senza vergogna, nominare il proprio piacere, abitarlo senza chiedere il permesso: non si tratta di una liberazione intima o narcisistica, ma di un gesto collettivo, che implica cura, ascolto e riscrittura delle relazioni. Il seno, in questa prospettiva, smette di essere solo superficie erotica o oggetto di valutazione estetica: torna a essere sensibile, vivo, plurale. Un punto del corpo che può far ridere, piangere, sentire, guarire. Un nodo affettivo e politico insieme.
Nel tempo, le tette sono passate da strumenti di nutrimento a oggetti di valutazione, da appendici del corpo a simboli da esibire, da parti intime a superfici pubbliche. Intorno a loro si sono costruite regole, fantasie, divieti. Hanno, sempre, attirato sguardi che – come sappiamo ormai dagli studi di Laura Mulvey degli anni Settanta – non sono mai neutri. Riconoscere come si guarda — e da dove — è un modo per capire cosa ci è stato insegnato sul corpo, sul desiderio, sul potere. E su chi ha il diritto di mostrarsi, o di essere visto, e a che condizioni. Il seno non è solo una questione estetica, né un tabù da spezzare: è una soglia. Racconta come siamo cresciute, cosa ci è stato detto e cosa abbiamo interiorizzato. Ripartire da lì — dal linguaggio che manca, dalle immagini che ritornano, dai corpi che non rientrano negli standard — significa provare a fare spazio a una femminilità meno prescritta e più vissuta. Indubbiamente reale.