ARTICOLO n. 16 / 2025
UN INCONTRO CON VINCENT LINDON
Ci sono delle occasioni, che capitano e basta, non puoi dire di no anche se hai paura, anche se non ti senti pronta, anche se…
Il mio incontro con Vincent Lindon è una di quelle. Ora mentre scrivo mi rendo conto che non puoi che coglierle, piccole o grandi che siano, non lo sai finché non inizi.
Quest’occasione inizia da un messaggio, lo ricevo quasi un mese fa, mentre sto rientrando a casa, in un primo pomeriggio grigio, a piedi, in una zona che non conosco bene.
Lo ricevo e immediatamente mi perdo. Io non ho senso dell’orientamento e non uso Google Maps, quindi chiedo indicazioni a un signore, con i baffi, sembrano due cose inutili ma sia non usare app che i baffi del signore che mi spiega dove devo andare, mentre la mia testa è solo su quel messaggio, sono due cose che fortemente si legano a Vincent Lindon.
Fino a quel momento il mio non essere tecnologica mi era stato solo d’intralcio, ma come si dice, “un giorno questo dolore ti sarà utile”, quel giorno stava per arrivare e quel non essere affatto tecnologica sarebbe stato fondamentale per creare un rapporto che sembrava impossibile con Vincent Lindon. I baffi, se conoscete la filmografia di Lindon, il riferimento è chiaro, quasi un segno, per chi come me nei segni un po’ ci crede.
Ma facciamo un passo indietro, a quel messaggio, che era un invito, “Vuoi incontrare Vincent Lindon in occasione dell’uscita di Noi e loro e parlare con lui? Non un’intervista ma un incontro…”.
Non un’intervista, ma un incontro. Questo era un punto fondamentale e ancora non sapevo quanto.
Per me era fondamentale, perché non sono una giornalista ma come avrei capito sarebbe stato fondamentale proprio per quell’occasione.
Io ho da tanto tempo un legame con Vincent Lindon, lui ovviamente non lo sa o almeno non lo sapeva ancora. Ho visto tutti i suoi film, non dico tutti per iperbole ma in senso letterale, ho visto anche L’étudiante per intenderci. Il suo controcampo durante il monologo in Crisi mi mette sempre in pace con il mondo e i suoi film con Stephan Brizé sono tra i miei preferiti, Titane mi ha scosso enormemente soprattutto per il finale di Lindon, Fred è il primo film francese che ho visto in vita mia, ma tutte queste cose non mi serviranno. Apparentemente.
Dico di sì, certo che lo incontro, d’istinto, non mi pongo domande, solo un grandissimo sì. Poi come sempre accade quando le cose sono lontane non fanno paura ma poi la data si avvicina e inizio a chiedermi se ho fatto la scelta giusta, se sono all’altezza e se non sarà troppo emozionante.
La verità è che Vincent Lindon mi fa pensare fortemente a mio padre, non si assomigliano. Mio padre assomigliava ad Alain Delon, però se devo pensare a qualcuno che ha quei tratti scostanti, quel modo di parlare e quella maniera di unire tic ed eleganza, mi viene in mente mio padre, Stefano de Mandato.
Allontano il pensiero, mi concentro sul nuovo film Noi e loro, lo vedo prima con il link che mi manda l’ufficio stampa. È un film incredibile, inaspettato, c’è una scena che mi colpisce moltissimo, lui beve da solo al bar, ormai disperato, ma di una disperazione sorda e io rivedo mio padre.
Non è la scena che fa piangere ma è la scena in cui piango io.
Rivedo il film al cinema, la sera dell’anteprima, la sera prima dell’incontro, c’è anche Lindon in sala che lo introduce, lo guardo ma non ascolto, non posso ascoltare altrimenti domattina non vado.
Sul grande schermo il film mi piace ancora di più, ripiango sulla stessa scena e mi viene una lista di domande, perfette, sulla sceneggiatura (in fondo io sono sceneggiatrice, è il modo migliore per approcciarmi), sul modo di interpretare i personaggi, l’arco di trasformazione, i gesti… sono pronta.
Vado a dormire, tranquilla, serena, concentrata.
Cappotto blu, rossetto, taccuino in borsa con le domande e mi butto sotto i portici. Fa freddo ma non piove, sono in anticipo ma salgo nella sala del Baglioni dove ci sono già l’ufficio stampa e l’interprete che mi aiuterà con il francese, che mi ricorda il personaggio di un libro di Fred Vargas, mi tranquillizza, mi piace, io il francese lo capisco bene ma non mi sento di parlarlo, mi blocca.
Un caffè, un bicchiere d’acqua, addio rossetto e il taccuino aperto, abbiamo venti minuti che sono tanti e pochi allo stesso tempo, ma Vincent Lindon non è ancora arrivato, mi manca un po’ il fiato ma sono ancora concentrata: non sono una giornalista, sarà una chiacchierata informale, un dialogo.
Mi distraggo un momento a guardare il tavolo e i giornali sopra con la rassegna stampa, sento tossire, mi giro. È lui. Ci diamo la mano. Mi guarda appena, si siede, vede i giornali, li osserva, chiede conferma all’interprete su un titolo.
Si arrabbia, il titolo lo irrita molto, allude all’incanto della recitazione in maniera un po’ smielata, è il virgolettato a irritarlo, lui non l’ha mai detto. Ripete più volte in italiano la parola magia con fastidio. Mi guarda.
«Voi giornalisti fate così… chiedete e poi non rispondiamo noi ma l’idea che avete di noi, la vostra fantasia su di noi… lei per che giornale scrive?», mi trema la voce «io non sono una giornalista… sono un’autrice, una sceneggiatrice, non è un’intervista». Mi sento un po’ ridicola, mi traduco la frase nella testa e appare un Magritte Ceci n’est pas une interviste.
Lui sembra sorpreso ma per nulla convinto, come se fosse una trappola, sbuffa come sbuffano i francesi, come sbuffava ogni tanto Stefano de Mandato, “sì, certo, non ce l’ho con lei… cominciamo, on y va!”.
Sono in crisi, non so come uscirne e gli faccio una domanda sui personaggi, una domanda di quelle che mi sono scritta, una domanda banale.
Si vede che non apprezza la domanda ma è molto educato e risponde in maniera distaccata, la domanda era del tipo “Lei come affronta i personaggi, come lavora sulla costruzione del ruolo…”, la risposta è perentoria, “io non lo so, è un lavoro che spiegare non ha senso, succede e basta. Meglio che posso, ma è lavoro, io voglio che sia un buon lavoro, ma parlarne a chi serve?”.
Mi arriva velocissimo un pensiero, cosa sto facendo? Perché gli faccio queste domande? Perché spreco così un incontro? Perché non sfrutto quest’occasione ma la perdo?
Lo guardo, per la prima volta, ha gli occhiali in mano, una camicia bianca, gli occhi uguali e diversi dai suoi personaggi, mi gioco il tutto per tutto, ora o mai più, «ha ragione, è proprio così, se lo spiega non ha senso. Non m’interessa altra risposta. Io vedo lei e il suo corpo nei film, ogni volta diverso eppure uguale. Anche il corpo con una sua storia».
Penso che ho detto una cosa senza senso, ma succede qualcosa nei suoi occhi, che non stanno mai fermi, in quel momento si fermano, mi guarda, fisso, sorride «Brava! È corpo, è l’istinto, è tutto animale, io devo sapere solo il nome, il lavoro, dove abita e cosa mangia il personaggio e poi c’è il corpo e la chimica, l’organico, l’animale. Io ho un corpo specifico, entra sul set e voilà il personaggio prende forma, nessuna psicologia, nessuna. Sta lì e vive». Si indica la pancia, si tocca i capelli, muove le mani.
Penso a lui che balla in quella danza che si trasforma in lotta in Titane capisco perfettamente cosa intende.
Mi perdo nei pensieri, rivedendo il personaggio e la persona davanti a me, capisco le contraddizioni e mi arriva il carisma e l’insicurezza.
«Che cosa scriverà, non un’intervista, allora cosa farà?».
Non so cosa rispondere per non deluderlo e allora penso che l’unica chiave sia la verità. «Una conversazione, un incontro… Non so cosa scriverò ma so che è qualcosa che succederà dopo, che ora c’è l’incontro», lui ripete la parola, non convinto «Incontro?». L’interprete traduce e lui risponde con la parola perfetta, inaspettata, «non un incontro allora è un… rendez vous».
Sorrido, «Oui, un rendez vous».
Un appuntamento.
«Allora sei tu che devi raccontare, non io, tu… Come ti chiami?».
«Allegra».
Si rilassa, si siede più comodo, prende un foglietto e scrive il mio nome, come per non dimenticarselo, «Allegra, devi fare così, tu devi raccontare questo appuntamento, non come una scrittrice, oppure sì però come se lo raccontassi al tuo migliore amico, dobbiamo fare così. Nessuna narrazione è neutra».
Vincent Lindon ha appena parlato alla prima persona plurale, mi viene in mente Noi e loro, mi viene in mente Pierre, il suo personaggio, che dice al figlio che prima non esisteva altro noi che loro tre, non lo dico a Vincent, a lui dico solo che farò così e chiudo il taccuino. Non ci sono più domande, c’è il rendez vous.
E cominciamo a parlare, lui capisce l’italiano, io capisco il francese. L’interprete capisce e quasi non interviene. Mi piace sempre di più.
Lui mi racconta del documentario che è uscito una settimana fa per Arté, in cui puoi non si è nascosto, si è preso il rischio, «con i film, con le donne, con la vita bisogna prendersi il rischio», il rischio di mostrarsi «nei giorni sì e nei giorni no, quando vinci un premio e quando non vuoi alzarti dal letto», «non mi sono nascosto», «e guarda» – mi mostra il suo telefono – «ho ricevuto messaggi da colleghi che mi dicevano che sono pazzo a raccontare come sono e di giovani che mi dicevano che li salvava vedere che sono così».
«Io non ho i social, a me piace stare con la gente, al bar, fare la spesa, chiedere indicazioni per strada…».
Ecco le indicazioni, Google Maps, il nostro legame. Ci siamo, siamo al rendez vous.
«Je m’en foute dei social… Io non voglio quello, lo odio quel modo di essere, no di non essere». Ride, rido anch’io.
Penso che dice una parolaccia con eleganza e gli dico senza pensarci che mi fa pensare a mio padre, che è morto poco più di un anno fa, dico proprio così morto, non mancato, fuori luogo sicuramente, ma in un rendez vous tutto è concesso e per un attimo mi sembra commosso, in qualche modo sollevato che io dica cose “fuori luogo”.
Ci interrompono, è finito il tempo, lui fa un cenno di aspettare e di rimanere seduta, siamo ancora in ballo, il rendez vousnon è finito, «se non possiamo essere liberi stiamo vivendo la vita sbagliata… Io lavoro senza pormi questioni psicologiche, tanti attori anche bravi lavorano sulla psicologia dei personaggi, io no. Zero. Conosci Bjorg?».
Annuisco stupita. «Se gli chiede come fa lui a fare quello che fa ti risponde che lo fa, ma che lo fa diverso da Mc Enroe, uguale per Maradona e Platini, o Belmondo e Volontè, Gassmann e Mastroianni, Beatles e Rolling Stone… È così… Tutti diversi ma tutto giusto, se funziona». Ride.
Rido anch’io, penso al modo in cui lo fa lui e mi viene una domanda, rischiosa, ma mi butto.
«E quando un film è finito? È finito?».
«Oui… No… Non lo so, a volte sono molto triste, a volte sono molto felice, quando finisce, a volte mi dimentico un personaggio e a volte invece mi resta o io resto a lui. Se ci penso impazzisco, non ci penso mai. Le cose succedono, passano, sono occasioni, non vanno sprecate ma non vanno rimpiante. Tu comprend? Capisci?».
Io capisco meglio di quello che lui può immaginare, mi interrompe, «c’è una cosa che è importante, una frase che ti devo dire, la devi scrivere, non per gli altri, per te».
So che il tempo è finito ma lui non si ferma, «devo dirti una cosa che per me è ultra importante, è una frase di Camus, del discorso al Nobel…». Prende il telefono e mette il viva voce, si sente il suono del telefono che squilla, non risponde nessuno, sbuffa, mi guarda. «È sempre così, se è urgente, non rispondono, c’est la regle, è la regola».
Riprova sempre in viva voce, risponde una voce assonnata, «scusami, devi farmi un favore, vai a prendere il libro, pagina 25 e capolinea 2…». Dall’altra parte, gli chiedono di aspettare, sono istanti lunghissimi, lui è in ascolto, sussurra guardandomi, «questa è troppo importante segnala…». Dall’altro lato del telefono la voce (scoprirò mentre parla che è Stefan Crepon, il coprotagonista di Noi e loro, uno dei due figli, quello “buono”) legge la frase con una grande verità e stanchezza nella voce, Vincent lo saluta e lo ringrazia con trasporto.
«Voilà… È questo, quella frase, sono io, siamo noi».
Poi lui mi chiede se è abbastanza, se sono contenta, mi esce la più assurda e inopportuna delle frasi, «ci possiamo abbracciare?».
Con grande forza lui mi abbraccia, ripenso all’abbraccio finale di Noi e loro, persona e personaggio, le rendez vous, tutto finisce ma in fondo resta.
Non so come salutarlo e mi esce quel francese che mi blocca, una frase alla Stefano De Mandato, rischiosa, «Bonne chance pour la vie».
Fa una pausa, sorride, gli piace, «Oui, anche a te, bonne chance pour la vie, à nous, a noi. Ciao!», con quel misto di francese e italiano. E quel noi.
Mi allontano, scendo le scale e incontro Stefan Crepon, mi sorride e gli faccio i complimenti, immagino che lui non sappia che l’ho sentito in viva voce leggere Camus e sorrido, ha un bello sguardo, poi mi giro e Vincent è sulle scale, mi fa un sorriso e un cenno di saluto. Il rendez vous è finito.
Sono di nuovo sotto i portici, è passata poco più di un’ora, strana, penso a quella scena del film che mi aveva fatto piangere e stavolta sorrido, ora piove ma je m’en foute.
«E spesso chi ha scelto il suo destino di artista perché si sentiva diverso dagli altri, si accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte ed essere diverso dagli altri solo confessando la sua somiglianza con tutti», Albert Camus.