ARTICOLO n. 24 / 2023
Di Marina Viola
FIGLI CHE SI SCOPRONO NON ETEROSESSUALI
Around The Table. Una serie americana in italiano
I nomi dei personaggi di questa serie sono inventati, anche se avrei tanto voluto chiamare mia figlia Vera, ma ho perso quella discussione sui nomi. Pazienza. Falsi anche alcuni (pochi) dei racconti di famiglia. Ma, credetemi, non sono una bugiarda: pensate che l’enorme balena bianca si chiamasse davvero Moby Dick? O il ragazzino di Ida, Useppe, o la tipa che perde la scarpa Cenerentola? E io mi adeguo.
Eravamo tutti e cinque a tavola: io, mio marito Ryan e i nostri figli Andrea, Martina e Vera. Si chiacchierava del più e del meno e si cercava di convincere Andrea (autistico ventiseienne tendenzialmente asociale) di stare a tavola con noi, con i soliti scarsi risultati. «Ah, a proposito», dice Martina, che stava frequentando il primo anno di università, «sono di genere non binario». Rispondo: «Bene, sono contenta!».
In effetti, è da quando Martina era piccolina che ha sempre preferito amici maschi, perché le femmine litigano sempre; il monopattino alle bambole, perché dopo un po’ che noia, vestiti di colori neutri piuttosto che il rosa, a parte un periodo di principesse scemato molto velocemente. Le avevo comprato le Barbie, nascondendo al meglio possibile la mia insofferenza nei confronti di corpi sproporzionati, capelli che a toccarli vengono un po’ i brividi e vestiti improbabili. Ci ha giocato per due, tre settimane al massimo. Al pomeriggio, dopo la scuola, andava al parco di fronte a casa (allora abitavamo a Brooklyn, ma poi ci siamo trasferiti a Cambridge, nel Massachusetts) a incontrare Henry, Zac, Anton, Maceo: la sua banda. Tornava sporca e sudata. Stanca e felice. Ha avuto, a dire il vero, un’amica femmina, ma quando la madre telefonava per chiedere se Martina volesse andare da lei a giocare, Martina mi faceva cenni con le mani per farmi dire di no.
Quando le ho imposto di cercare uno sport, quello che le piaceva di più, perché non è che si può stare in camera davanti al computer tutti i pomeriggi, ha scelto il roller derby, un gioco violento e di contatto, giocato sui pattini a rotelle, con atlete esclusivamente femmine, quasi tutte lesbiche. Lì ha cominciato a frequentare più ragazze, ma non quelle che da piccole giocavano alle bambole. Erano molto neutre per quanto riguarda il genere, e spesso tra loro nascevano amori detti e non detti. Martina era entrata a far parte di quel gruppo con estrema naturalezza. Io e Ryan eravamo convinti che fosse anche lei lesbica, ma un giorno ci ha annunciato, sempre con la naturalezza di cui sopra, di aver conosciuto un ragazzo. In Internet. Il ragazzo era un tipo dell’Alabama, che lei voleva andare a conoscere. Dopo lunghi pianti e ancor più lunghe discussioni, siamo arrivati a un compromesso: se vuole, può venire lui. Che infatti puntualmente è arrivato, lui con degli stivali da cowboy bianchi francamente improponibili e io con un bicchiere di vino (il terzo) pieno fino all’orlo.
Oltre che essere terrorizzata del fatto che sicuramente la mia bambina di diciotto anni fosse in camera sua a far l’amore (l’ho preparata bene? Cosa faccio, busso e le dico di non avere senso di colpa, che anche la mamma e papà ogni tanto lo fanno? Li avrà dei condom? Credo di averle detto che se non vuole fare nulla, per l’amor d’un Dio, deve saper dire di no, ma non sono sicura) ero stupita, e non poco, del fatto che si fosse innamorata di un maschio. Ricordo, nel panico generale, di aver chiesto a Ryan: «Ma scusa, non era lesbica?»
La sera a cena, quando ha annunciato il suo cambio di genere, ero molto contenta di aver scoperto un aspetto importante di lei. Anche per Martina deve essere stata una liberazione: è una conquista importante capire chi si è e condividerlo con gli altri, malgrado non sempre sia una notizia accolta a braccia aperte. Molte persone infatti cercano di sopprimere la propria identità di genere. parte qualche storia con delle ragazze, finora ha sempre preferito avere morosi Mi ha spiegato, perché la maggior parte di quelli della mia generazione è un po’ ignorante sul soggetto, che essere di genere non binario non ha nulla a che fare con la preferenza sessuale: una persona come mia figlia si sente un po’ in mezzo tra il sentirsi donna o uomo, ovvero non riesce a sentirsi a suo agio né quando si dichiara maschio né quando si dichiara femmina. È attratta da maschi o come Martina, di genere non binario (ma nati col pisello, per intenderci).
La sua richiesta è stata che da quel momento, quando parlavamo di Martina, avremmo dovuto usare un pronome neutro: they. È un pronome plurale, è vero, ma per ora sembra essere il più gettonato. Ho fatto molta fatica a ricordarmelo, perché è grammaticalmente sbagliato, ma da qualche anno a questa parte ho fatto passi da gigante: non mi sbaglio quasi mai.
A Cambridge, dove viviamo, la gente è particolarmente liberal, nel senso che è aperta alle diversità di razza, di classe e di genere. Moltissimi ragazzini delle medie e del liceo si sono dichiarati di genere diverso da quello che è stato dato per scontato alla loro nascita, perché è una città che accetta le diversità con molta disinvoltura: per anni abbiamo avuto una sindaca gay, nera e musulmana, per esempio. I ragazzi qui si sentono compresi e accettati. A scuola non si percepisce discriminazione da parte dei compagni o degli insegnanti. Infatti, molti studenti preferiscono fare coming out a scuola prima di farlo a casa, perché esistono alcune culture che fanno fatica ad accettare questo tipo di discorsi.
Quando anni fa Martina ha annunciato la sua vera identità di genere, non ho potuto fare a meno di pensare che se fossimo in Italia, il suo futuro sarebbe molto più difficile, anche se percepisco un vento di cambiamento. Ho letto di molti genitori che raccontano di figli simili a Martina; i giornali ne parlano sempre di più, intervistano sessuologi e psicologi su questo tema. Mi sembra di capire che alcune cose stanno cambiando.
Due anni fa stavo ancora lavorando al mio ultimo libro, in cui mi sono posta molte domande su come affrontare da genitori la sessualità dei propri figli senza piangere o senza volersi buttare giù dalla finestra. Avevo appena finito il capitolo in cui descrivevo la rivoluzione di genere come una delle più significative della Storia con la esse maiuscola. Per i maschietti ancora adesso si mette il fiocchetto azzurro (il colore dei principi) per le femminucce quello rosa (il colore delle Barbie). Siamo il risultato di millenni in cui siamo stati guidati dagli uomini, i “protettori” di noi povere femminucce deboli e servili. Se non ci fosse un genere considerato superiore, non ci sarebbero le discrepanze maschiliste che noi donne subiamo senza neanche accorgercene. Nel capitolo cercavo di spiegare come le dichiarazioni sul proprio genere, esprimere quello che si è senza timore, aggiungano un senso alla nostra sacrosanta libertà. L’editor che mi aiutava mi ha chiamato che a Milano erano le tre di notte per dirmi che avrei dovuto cambiare o addirittura togliere quel capitolo, «altrimenti ti leggeranno solo le lesbiche e quelli di estrema sinistra», gruppo, tra l’altro, di cui sarei fiera di avere tra i miei lettori. Diceva: «è tutta una questione di moda, questi ragazzini sono privilegiati e davvero non hanno nient’altro a cui pensare? Un’americanata che in Italia non capiterà mai». Sono stata gentile, ma ben ferma sulla mia posizione: che vantaggio avrebbe un ragazzino ad annunciare che si sente femmina se non è vero? Sono temi difficili da accettare e da condividere con genitori, amici, insegnanti. Altro che moda. C’è dietro a tali dichiarazioni una grossa sofferenza, che parte dal terrore di non essere accettati per come si è. Tzè… la moda… È complesso essere cresciuti in una società storicamente omofoba. Figurati te: una moda… Una delle poche volte in vita mia in cui ho avuto ragione: me lo ricordo perché mi capita raramente.
Gli Stati Uniti sono un Paese notoriamente bigotto, ancora lì a discutere se il diritto di abortire è la strada più sicura per arrivare all’Inferno. È un Paese complesso, pieno di problemi sociali, strutturali; è un Paese violento, fervido sostenitore del diritto di comprarsi tutte le armi che si vuole, difensore spietato della proprietà privata. Ci vivo da trent’anni e posso affermare di aver visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Eppure, benché Cambridge sia particolarmente aperta mentalmente, non è certamente un’eccezione: negli Stati Uniti i diritti per le persone LGBTQ sono diventati leggi. Si chiama TITLE IX quella che proibisce la discriminazione nelle scuole; il TITLE VII (parte del Civil Rights Act, approvato nel 1964) condanna discriminazioni sul lavoro. Si chiama FEDERAL FAIR HOUSING ACT l’atto giuridico in materia di alloggi che vieta discriminazioni per quanto riguarda case o appartamenti in affitto o sul diritto di ottenere un mutuo. Nel 2020 è stato stipulato che non occorre più mostrare documenti medici per certificare il proprio genere sul passaporto americano. Ma soprattutto: è federalmente proibito discriminare persone dello stesso sesso (o genere) che si vogliono sposare o che vogliono adottare o avere dei bambini. Il che significa che, quando uno o una della coppia muore, per esempio, l’altro ha diritto all’eredità. Significa che se John e Steven si sposano, i loro diritti sono esattamente uguali a quelli di Giorgio e Susanna. E queste sono solo alcune delle leggi antidiscriminatorie: non siamo certamente ancora arrivati all’uguaglianza di diritti fra le persone cisessuali e tutti gli altri, ma la strada pare ben spianata per altre leggi.
L’Italia, invece, è considerato il Paese dell’Europa occidentale peggiore per quanto riguarda i diritti LGBTQ. Non lo dico io, lo afferma ILGA, un’associazione mondiale in difesa dei diritti di lesbiche, gay, bisessuali e trans. In Italia, se si nasce fuori dagli stereotipi, non è possibile sposarsi, né adottare. La legge ZAN, che tutela crimini o incitamento all’odio, sembra essere sparita dai programmi legislativi. Nel 2007, Romano Prodi propose un disegno di legge per la tutela dei diritti di persone come Martina, ma poi finì tutto in un enorme nulla.
Ho parlato di leggi antidiscriminatorie, perché malgrado ci siano discriminazioni in entrambi i Paesi, il fatto che esistano obbliga anche la società, volente o nolente, di accettare e accogliere la presenza di persone diverse da loro. In Italia, per ora, facciamo ancora fatica. Mi è stato confermato anche qualche tempo fa, quando in Italia è nata un’ennesima polemica sulla presenza di una cantante trans, Rosa Chemical, a Sanremo. La deputata di Fratelli D’Italia Maddalena Morgante, nel suo discorso intenzionato a stoppare la “promozione di propaganda transgender”, non si vergogna a sostenere che «la rivoluzione fluida era già da tempo sul palco dell’Ariston, ma trasformare Sanremo nell’appuntamento più gender fluid di sempre è del tutto inopportuno. La TV rimane il principale mezzo di informazione e i minori sono la fascia principale di ascoltatori. Il Festival della Canzone rischia di diventare l’ennesimo spot del gender fluid e della sessualità fluida e che da sempre Fratelli d’Italia contrasta». A proposito di tutele delle minoranze, appunto.
Sono palesi le differenze tra la riflessione tradizionalista della signora Morgante e le serate dedicate ai premi per cinema e musica qui, negli Stati Uniti. Forse l’evento più simile al Festival di Sanremo è quello dedicato ai Grammy, cioè alla musica contemporanea con la differenza che questi vengono seguiti in tutto il mondo, mentre sul nostro Festival non troveremo certamente articoli sul New York Times. Il premio per il disco migliore dell’anno è stato vinto da Harry Styles, ex-membro del famosissimo gruppo One Direction. Che, nonostante l’abbigliamento, classificato come “gender fluid fashion”, non ha mai voluto condividere le sue preferenze sessuali. Ha vinto anche l’artista tedesca Kim Petras, la prima trans a vincere nella categoria Best Pop Duo. Oltre a loro, in gara c’erano più di dieci artisti LGBTQ. Ai Golden Globes una persona trans ha vinto l’ambito premio Emma D’Arcy e molti altri sono stati concorrenti. I giornalisti più seguiti su CNN negli Stati Uniti sono gay e non lo nascondono: Anderson Cooper, il più conosciuto, ha avuto un figlio grazie a una gravidanza surrogata, cosa che in Italia viene vista come un atto demoniaco.
Detto questo, spero di non passare per una di quelle persone convinte che gli Stati Uniti siano una specie di paradiso terrestre: lo è per chi è bianco, maschio, ricco, cristiano ed eterosessuale, proprio come Fabio Volo (ma in inglese). Per tutti noi che ci viviamo cercando di stare a galla, è un esperimento per capire se le persone che arrivano da tutto il mondo possano convivere in pace. La strada è ancora molto lunga, ma la speranza è l’ultima a morire.