ARTICOLO n. 52 / 2024
SE NON RICORDI NON SEI NULLA
intervista di Fabio bozzato
Per più di un’ora e mezza Julio Llamazares ha firmato copie, all’uscita del suo incontro a Incroci di Civiltà, il festival letterario promosso dall’Università Ca’ Foscari di Venezia. Prima di mettere la firma sul suo Diversi modi di guardare l’acqua (Il Saggiatore, 2024, pagg.170, traduzione di Denise Zani) si è chinato centinaia di volte per chiedere qualcosa a chi gli si parava di fronte, finendo per ascoltare una quantità di piccole storie, anche solo un ricordo o un aneddoto, con negli occhi la stessa incontenibile curiosità.
Julio Llamazares, poeta, scrittore e sceneggiatore, è nato nel 1955 a Vegamián, un paesino spagnolo che da bambino ha visto inondare per far posto a una diga. Quella vicenda è tornata più e più volte nella sua lunga e ricca produzione letteraria, compreso questo libro che è venuto a presentare in laguna. Il fatto è, come dice uno dei suoi personaggi, che «ci sono diversi modi di guardare l’acqua. Dipende da cosa stai cercando». E da qui, Spritz in mano, abbiamo cominciato a chiacchierare.
Fabio Bozzato: Lei è un grande narratore della memoria. C’è da chiedersi cosa sia per lei la memoria.
Julio Llamazares: Io credo nella personalità della memoria. Ognuno di noi è quello che ricorda. O meglio, siamo allo stesso tempo quello che ricordiamo, quello che abbiamo vissuto e quello che ricordiamo di aver vissuto. Per questo l’Alzheimer è la malattia più crudele, perché ti annulla non solo il fisico, ma anche la personalità. Perché se non ricordi, non sei nulla. Diventi un automa, un manichino da vetrina, una figura di cera. Dunque, potremmo dire che tutta la letteratura, perlomeno come io la concepisco, si costruisce sulla memoria, sull’esperienza della vita già vissuta, non solo personale ma soprattutto collettiva. Ecco perché è così importante per me la memoria, molto più che i singoli ricordi, perché le nostre complicate radici sono il fondamento della nostra identità.
F.B. In realtà, nei suoi testi sembra sempre volerci fermare sugli strappi della memoria. Ha accennato ora all’Alzheimer, si dice spesso sia anche una metafora del contemporaneo: pensa sia così?
J.L. Oggi possiamo dire che l’Alzheimer è davvero una delle malattie di cui soffre l’Europa. Altrimenti non si spiega perché siano ritornate certe ideologie e persino certe parole che credevamo esserci lasciati alle spalle un secolo fa e a volte molto più di un secolo. Se ricordassimo, come europei, se avessimo una memoria funzionante e non crepata o interrotta, non torneremmo a ripetere certe cose. Il fatto che si ripetano ha a che vedere con questa perdita di memoria. E così ci troviamo divisi, una parte ammalata di questo Alzheimer collettivo e una parte che affronta le conseguenze. Oggi siamo in mezzo a questa battaglia.
F.B. Nel suo libro i personaggi raccontano gli stessi fatti, tutti hanno di fronte la stessa scena ma ognuno vede cose diverse.
J.L. In quel momento tutti hanno di fronte lo stesso specchio: è il bacino d’acqua. Quell’acqua, che è stata la causa dello sradicamento e della distruzione di un mondo, è lo stesso specchio su cui tutti si riflettono. Succede così in tutta la nostra esperienza quotidiana. Lo stesso paesaggio significa per ciascuno di noi qualcosa di diverso, c’è chi l’ha abitato e chi lo vede per la prima volta, chi ha lavorato la terra e chi ci viene per turismo. Io posso rivedermi in quella scena di fronte al bacino d’acqua della diga, là in quel piccolo paese dove sono nato. Mi è capitato spesso di fermarmi in un punto panoramico, assorto nei miei ricordi, e sentire gente venuta da lontano osservare quel luogo e rimanere sbalordita dalla meraviglia del paesaggio: «Che bello, sembra di stare in un lago delle Alpi».
Con i libri è la stessa cosa. Ogni libro è uno specchio e non ci sono due lettori al mondo che vivano quell’esperienza letteraria allo stesso modo. E così con la musica: ad ascoltare la stessa canzone, c’è chi ricorda un giorno quando è stato felice e c’è chi sentirà tristezza perché magari la associa a un dolore o una perdita. Si dice che non si dovrebbe tornare dove si è stati felici ed è quello che vivono i personaggi del libro. Perché è vero che è una storia sullo sradicamento, ma è anche il racconto sulla relatività delle emozioni e delle reazioni alla vita.
F.B. Di tutti i personaggi l’ultimo che fa parlare è Agustín. È come se per tutto il libro stessimo aspettando la sua voce. È il personaggio taciturno, isolato, considerato da tutti problematico e non autonomo, eppure ci sorprende.
J.L. Agustín ha uno sguardo di lucidità che gli altri non hanno. Ed è il personaggio che più mi è stato difficile scrivere. È quello a cui nessuno fa caso, su cui tutti sentono commiserazione; eppure, ha dentro di sé sentimenti più profondi di tutti gli altri. A volte tendiamo a disprezzare qualcuno, soprattutto se è abituato a restare in secondo piano e a non verbalizzare ciò che sente o ciò che desidera. È la voce che stona nel coro eppure lo completa. Perché in realtà questo libro è una tragedia greca: ogni maschera dice quello che deve dire e se ne va o tace.
F.B. In questo coro di voci familiari, ognuna finisce per raccontare due perdite irreparabili: un paesino fatto affondare nell’acqua e la morte del patriarca. La perdita, questa perdita ineluttabile, è un personaggio in più del romanzo?
J.L. È proprio così, quella perdita è davvero una presenza ingombrante che parla per sé. Questo romanzo è una elegia attorno a una persona le cui ceneri vengono gettate nell’acqua nel momento in cui muore, anche se era già morto cinquant’anni prima, ancora vivo, quando il suo paese è stato inondato con la costruzione della diga. Quell’uomo si è spento quando gli hanno sottratto il suo paesaggio. Il paesaggio è la sua memoria. E quando si perde paesaggio e memoria si muore. Un pensatore australiano, Glenn Albrecht, ha coniato un neologismo: “solastalgia”. È il trauma che viviamo di fronte alla distruzione del paesaggio. Nella mia storia, non è solo un bacino d’acqua che sommerge questi piccoli paesi, no, è tutta la tua vita che viene spazzata via. D’improvviso tutto cambia, si forma un nuovo paesaggio così come la tua vita ricomincia da capo in modo inaspettato. E continuerai sempre a sentire tutto il dolore dello sradicamento della tua memoria. Non solo è uno sradicamento fisico, ma è uno strappo dell’intera tua memoria. E questo produce un tale smarrimento da sommergerti nella malinconia.
F.B. I suoi libri sono sempre ambientati in questi piccoli paesi della Spagna profonda. Anche in Italia si parla molto dei borghi, antichi e spesso spopolati, che ora sono riscoperti come una risorsa. Lei crede che possano essere anche un terreno nuovo su cui ricostruire un sentimento comune europeo?
J.L. Credo sia un mondo estremamente importante, ricco, vitale. Di fatto, dopo la sbornia della globalizzazione e i suoi effetti di omogenizzazione economica e di livellamento culturale, credo che la gente senta la necessità di cercare qualcosa di perduto, di trovare un senso alla propria identità e per farlo è un movimento inevitabile rivolgersi alle proprie origini. Così assistiamo a un movimento sociale e filosofico di ricerca delle radici, come reazione proprio a una perdita di identità. Ora sono qui a Venezia. È una città unica, certo, ma se mi guardo attorno è uguale a qualsiasi altro posto, ci sono gli stessi negozi, la gente è vestita allo stesso modo. Le città non sono altro che una enorme rete in franchising. L’insoddisfazione e lo smarrimento che vive tanta gente derivano dalla sensazione di essere un prodotto in più nella società dei consumi. Non solo siamo consumatori ma noi stessi prodotti, la nostra stessa vita è venduta in questo modo. Così si spiega, credo, la tensione verso le origini. E si finisce per idealizzare un mondo delle origini, come sono i piccoli borghi. Attenzione, è un movimento confuso, pieno di rischi.
F.B. Perché finisce per incrociare e alimentare un’onda di nostalgia conservatrice.
J.L. Certo! Il rischio è che questa tensione alle origini diventi il brodo dei nazionalismi e delle piccole patrie, che è qualcosa di escludente ed egoista. Voglio dire che la ricerca delle proprie origini, delle radici, finché resta una filosofia di vita ha un suo senso, ma diventa pericolosa quando si fa ideologia.
F.B. A leggere i suoi libri, viene in mente Pasolini e il suo sguardo struggente sul mondo rurale. Lei stesso ha scritto un libro che si chiama Vagalume, lucciola, ed è famoso di Pasolini il testo sulla scomparsa delle lucciole come catastrofe antropologica ed ecologica. Lui aveva una risposta di rabbia e furia. Lei no, sembra essere solo profondamente malinconico.
J.L. Lo confesso, provo molta rabbia anch’io. Ma è una rabbia rassegnata. Perché sento sempre la sensazione di essere uno straniero nel mio stesso Paese. Sento che tutto va in una direzione che non condivido e che mi mette a disagio. Ho sempre in mente le parole del filosofo spagnolo Ortega Y Gasset: «Lo sforzo inutile porta alla malinconia».
Così, puoi scrivere tutto quello che vuoi ma sempre sentirai che non servirà a nulla. Non parlo di me, ma di chiunque. E tutto finisce macinato nella ruota del progresso o della vita, sotto i denti dell’economia. Allora davvero tutti gli sforzi che fai di scrivere sembrano uno sforzo inutile in senso sociale. È da qui che mi viene quella mia rabbia rassegnata che porta da un lato a una grande malinconia e dall’altro a qualcosa che ha a che fare con l’ironia o il sarcasmo. A questo punto, mentre scrivo mi sento come uno di quei naufraghi che lasciano messaggi in bottiglia. Non cambio il mondo scrivendo, ma mi serve per continuare a vivere. Sì, penso che scriviamo per sopravvivere.