ARTICOLO n. 1 / 2025
ANCORA FRANKENTHALER
Con la sua arte ha spostato un po’ più in là confini e possibilità della pittura astratta. Regina dell’espressionismo astratto e artefice del passaggio al color field painting (grandi tele coperte interamente di colore, poco importano segno, forma e materia), Helen Frankenthaler è stata per un lungo momento nostra contemporanea, attraversando con la sua arte più di mezzo Novecento e alcuni anni di questo millennio, per lasciare un corpus di opere mozzafiato parzialmente esposte in questi mesi in Italia in due mostre entrambe interessanti, organizzate in collaborazione con la Helen Frankenthaler Foundation e ospitate da Gagosian a Roma (fino al 23 novembre) e a Palazzo Strozzi a Firenze (fino al 26 gennaio).
Le due mostre non sono le prime di Frankenthaler in Italia (anche se quella di Firenze è la più completa retrospettiva del suo lavoro mai realizzata da noi), paese presente anche in uno dei dipinti esposti (Alassio, è un olio su tela realizzato durante il soggiorno dell’artista ad Alassio nel 1960 – prima di allora Frankenthaler era stata a Roma, Napoli, Firenze, Venezia e Milano). A Palazzo Strozzi sono esposti ventisette dipinti tra grandi tele e opere su carta, e tre sculture, tutte opere realizzate tra il 1953 e il 2002, insieme a lavori di artisti amati, amici, contemporanei: Jackson Pollock, Mark Rothko, Robert Motherwell, Morris Louis, Kennet Noland, David Smith, Anthony Caro, Anne Truitt. Da Gagosian sono presenti dieci opere su carta, realizzate tra il 1990 e il 2002 (nell’ultimo decennio di attività artistica, la pittura su carta diventa per Frankenthaler il principale mezzo espressivo). Le due mostre si completano e in nessun momento si ripetono. Dell’opera di Frankenthaler mostrano l’ampiezza, la profondità, la vastità. Se vogliamo anche l’immensità. I suoi lavori hanno talvolta titoli come Moveable Blue o Open Wall, azzurro mobile o parete aperta: evocano il movimento e l’atto creativo, un tentativo di sottrarre l’opera compiuta alla sua natura statica, di farla essere contemporaneamente ultimata e in divenire, quando già esiste ma è sul punto di diventare qualcosa di altro. Come recita una poesia anche sin troppo citata di William Butler Yeats, che per certi versi è una efficace sintesi dell’espressionismo astratto, o della vita in generale: Things fall apart; the centre cannot hold. Le cose crollano; il centro non può reggere.
Passare qualche minuto, anche diversi minuti, decine di minuti, o un tempo indefinito, davanti a un’opera di Helen Frankenthaler è un’esperienza interessante. Per certi versi è come meditare, o come guidare dentro un paesaggio apparentemente sconfinato. Dentro ci si perde o ci si ritrova. Oppure entrambe le cose. Le opere cambiano colore, forma, dimensioni della tela o del foglio di carta, senza perdere una componente comune che ha più a che fare con la sfera spirituale che con quella materiale. “La tecnica è l’arte”, mi dice un’amica artista al bar mentre sfoglio il catalogo della mostra di Palazzo Strozzi (Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, a cura di Douglas Dreishpoon, traduzione di Karen Tomatis, Marsilio Arte). Mi dice di cercare Frankenthaler nella tecnica. Poi mi fa domande a cui non sempre so rispondere. Quand’è che ha iniziato a dipingere su tele così grandi? Ci interroghiamo entrambe sulla grandezza delle tele, le confrontiamo a quelle dei suoi contemporanei. La mia amica dice che è più interessante la tecnica delle opere di Frankenthaler della sua spiritualità. Ha ragione, ma anche la grandezza di una tela è una questione spirituale. Ragiono su come l’artista interagisca con gli strumenti e l’opera, su quanto una pennellata sia un gesto concreto e anche spirituale, su come ogni cosa fintanto che esiste è spirituale. Poi mi metto a studiare.
Studiare opere e vita di Helen Frankenthaler richiede tempo e disciplina. Su di lei esista una discreta bibliografia, a cui si aggiungono interviste facilmente trovabili su YouTube o altrove, saggi critici, foto in bianco e nero e soprattutto a colori che ben restituiscono la grandezza di alcuni suoi lavori. In una foto leggendaria scattata da Gordon Parks a New York nel 1956, che è anche la copertina della bella biografia scritta da Alexander Nemerov (Fierce Pose. Helen Frankenthaler and 1950s New York, Penguin), Frankenthaler è seduta in mezzo a tele e colori che sono talmente dappertutto da fare sembrare anche lei una macchia rosa in mezzo alle altre macchie. Una macchia con occhi, naso, bocca, gambe piegate da una parte, un cerchietto in testa. È una di una serie di foto scattate da Parks nello studio di Frankenthaler per la rivista Life. La tecnica usata per i dipinti che l’accerchiano si chiama “soak stain”, che tradotto alla lettera è “imbibizione a macchia”, ovvero l’assorbimento di un liquido da parte di un corpo o di una sostanza, senza che si verifichi alcuna reazione chimica, semplicemente creando una macchia.
L’ha inventata lei, cercando un modo tutto suo di sperimentare con il colore come faceva in quegli anni Jackson Pollock, ed esplorando lungo una linea di ricerca iniziata quando, bambina, faceva gocciolare lo smalto della madre nel lavandino per osservare il colore espandersi e poi fermarsi in macchie sulla porcellana. L’effetto sulla tela è quello dell’acquerello, ma è ottenuto con la pittura a olio, a cui adulta aggiungeva altra vernice diluita con trementina e sparsa sulla tela con grandi pennelli da ferramenta, spatole, cucchiai, spugne, pennellini di zibellino, guanti di camoscio, anche la sua mano, come si diverte a elencare in un’intervista video.
In un’altra intervista dice che un’immagine è sempre una bugia perché riproduce le cose non come sono realmente ma su una superficie piatta con quattro angoli e quattro margini. Quello che Frankenthaler fa nei suoi lavori è superare quei margini, restare dentro senza rinunciare a prospettiva e profondità. Della vita e formazione di Frankenthaler va detto che ha avuto bravi maestri. Tra questi va nominato Erich Fromm, suo professore al Bennington College. Fromm le ha insegnato il potere etico della libertà, e del seguire l’istinto. Vale la pena citarlo: «Che sia la percezione fresca e spontanea di un paesaggio, o il balenare di una verità come risultato di un ragionamento, o un piacere sensuale che va al di fuori dei canoni, o lo sgorgare dell’amore per un’altra persona – in questi momenti sappiamo tutti cosa sia un gesto spontaneo e riusciamo a intravedere come sarebbe la vita umana se queste esperienze non fossero così rare e poco assecondate».
C’è poi la questione del femminile, questione che ha e non ha a che fare con la libertà, e che a mio avviso è rilevante nell’arte solo se si guarda alla storia dell’arte nel suo insieme, ai numeri e non alle singole opere.Frankenthaler l’ha risolta così: «Mi chiedo se i miei quadri siano più “lirici” (che parola impegnativa!) perché sono una donna. Guardare i miei quadri tenendo conto del fatto che a dipingerli è stata una donna è superficiale, una questione secondaria, come guardare i Kline e dire che sono bohémien. La realizzazione di un dipinto serio è difficile e complicata per tutti i pittori seri. Bisogna comunque essere se stessi». Vero.
C’è una foto di Joan Didion in cui è appoggiata a una ringhiera di legno su una terrazza affacciata sull’Oceano Pacifico. La casa è a Trancas, Malibu, la foto è del 1976, è del fotografo americano John Bryson. Mi è venuta in mente guardando un grande dipinto di Frankenthaler quasi tutto azzurro esposto a Firenze. Il dipinto si chiama Ocean Drive West #1. La foto di Didion mi è venuta in mente per via dell’oceano, che qui è l’Atlantico. Nell’estate del 1974 Frankenthaler prese in affitto una casa a Shippan Point, un quartiere residenziale di Stamford, in Connecticut, affacciato sul Long Island Sound. Lì realizzò undici tele. La serie si chiama Sea Change, è stata esposta per intero qualche anno da Gagosian, e include questo Ocean Drive West #1. «Disegna su tutta la superficie, colorala solo in parte e trasformala in una specie di mare», ha detto o scritto Frankenthaler. Nel dipinto Helen Frankenthaler non è da nessuna parte, non ci sono occhi, naso, bocca, gambe piegate da una parte, cerchietto in testa. C’è l’azzurro. Molto azzurro. Poi ci sono piccole linee orizzontali in altre tonalità di azzurro e altri colori. Non sono nette, ma sono linee, e sono colori. Ancora Frankenthaler: «Una linea è una linea, ma è anche un colore». Ancora Frankenthaler: «Com’è bella l’idea in sé di dipingere». Ancora Frankenthaler.